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IL CONTRIBUTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE ALLA NON AGEVOLE INTERPRETAZIONE 
DELL’ART. 13 DEL “DECRETO BERSANI”.
 
Note a margine della sentenza della CORTE COSTITUZIONALE, 1 agosto 2008, nr. 326 – Pres. Bile, Est. Cassese *
 
(ottobre 2008)
 
 
di Damiano Florenzano 
Professore straordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento
 
estratto da INFORMATOR, 4, 2008 [in corso di pubblicazione] 
 
1. Con la sentenza n. 326 del 2008 la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi sull’art. 13 del D.L. 223 del 2006, anche se nei limiti angusti delle questioni di competenza sollevate, in via principale, da quattro regioni (Veneto, Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta).
Come si ricorderà, con l’articolo citato - rubricato esattamente “norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici, regionali e locali e a tutela della concorrenza” - il Legislatore statale ha approvato un gruppo di disposizioni con la palesata intenzione di incidere sul ricorso alle partecipazioni sociali da parte delle amministrazioni regionali e locali. Ciò pure inverando un nuovo orientamento volto a comprimere o, comunque, a confinare il ricorso al modulo societario e alle cd. “esternalizzazioni”, di cui si rinviene traccia evidente in provvedimenti normativi coevi e successivi[1].
In sintesi, in base al complesso di norme gemmate dall’art. 13, le società che sono partecipate/costituite dalle amministrazioni regionali e locali per svolgere attività serventi/strumentali per l’ente medesimo:
·        non possono erogare prestazioni a favore di terzi (soggetti pubblici e privati);
·        non possono detenere partecipazioni in altre società o enti;
·        devono avere per oggetto sociale esclusivo proprio l’attività servente/strumentale.
Ed al fine di garantire l’effettività di tali prescrizioni, le disposizioni soggiungono:
a)      che le attività non consentite devono cessare allo scadere del termine fissato dalla legge (oggi trenta mesi dall’entrata in vigore del decreto – a seguito dell’ultima modifica introdotta dall’art. 7 del D.L. 3 giugno 2008, n. 97);
b)      che le attività vietate possono essere dismesse dalla società entro il predetto termine anche attraverso una cessione a terzi “scorporandole anche costituendo una separata società”;
c)      che le attività non consentite e non cedute cessano di avere efficacia allo scadere del termine sopradetto;
d)      che i contratti stipulati in violazione dei divieti sono nulli, eccezion fatta per quelli stipulati dopo l’entrata in vigore del decreto, ma in esito di procedure di aggiudicazione avviate prima della predetta data.
Si sa che nei primi due anni di applicazione delle misure sono emersi non pochi problemi interpretativi che, in effetti, sono riconducibili non solo alla non perfetta tecnica redazionale utilizzata e all’uso di espressioni generiche e di incerto contenuto, ma anche all’incoerenza delle misure disposte rispetto alle “rationes” palesate; perplessità e dubbi che hanno riguardato e riguardano sia la precisa individuazione dei soggetti destinatari, sia il contenuto delle misure, sia, non da ultimo, la legittimità costituzionale di queste[2].
Nel frattempo, la giurisprudenza amministrativa, pur non numerosa[3], ha contribuito ad illustrare i contenuti della disciplina, assecondando una lettura estensiva e assai rigorosa dei divieti, che, per il vero, è apparsa poco coerente con i contenuti[4] e con la natura eccezionale delle previsioni[5].
E’ così intervenuta la sentenza della Corte che si commenta, la quale, nella limitata prospettiva di un giudizio in via principale, pur non potendo affrontare gran parte delle questioni che pure erano sul tappeto, ha avuto modo di offrire alcune utilissime indicazioni sia di metodo, sia di contenuto.
 
2. La sentenza si è pronunziata sulle complesse e articolate questioni con le quali le quattro Autonomie avevano preteso contestare la spettanza allo Stato del potere di disporre siffatte misure, pure infarcendo i ricorsi di denunzie concernenti la legittimità costituzionale, tout court, della disposizione, le quali erano, a fortiori, ossia del tutto esorbitanti dalla questione di competenza.
Cosicché, il Giudice delle leggi, dopo aver sfrondato il giudizio dalla gran parte delle questioni sollevate – giudicate inammissibili – ha isolato la questione suscettibile di essere scrutinata. Alla fine è emerso che le Regioni si erano limitate a contestare che la disposizione di legge statale, intervenendo sulla disciplina delle società delle amministrazioni regionali e locali, avrebbe invaso o, quantomeno, menomato le competenze dei legislatori locali in materia di organizzazione degli uffici e degli enti locali. Invero, poco cosa per scalfire un gruppo di disposizioni di portata così generale ed interpreti (presunte) della necessità di evitare lo scorretto uso, a danno del mercato, di strumenti operativi da parte delle Amministrazioni regionali e locali.
Da qui lo scontato rigetto delle questioni, che è stato suffragato da lineari quanto sintetiche argomentazioni. D’altra parte, nonostante il bagaglio di argomentazioni, pur nutrito e pregevole, illustrato nelle difese regionali, non poteva non emergere l’inconsistenza di una pretesa delle Autonomie ad avocare il potere di prescrivere, in via generale, in capo a soggetti societari (di diritto comune), obblighi di oggetto sociale esclusivo, ovvero il potere di prevedere la nullità, ovvero l’inefficacia di contratti, anch’essi, va da sè, disciplinati dal codice civile.
Orbene, venendo alla sentenza, il Giudice, innanzitutto, ha proceduto, con lapidaria sintesi, all’esatta collocazione delle norme interessate dalle questioni, precisandone oggetto, destinatari e ratio.
In particolare ha rilevato che: “tali disposizioni sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Le disposizioni impugnate mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza”.
Cosicché, già con queste affermazioni di premessa, la Corte ha finito per prendere posizione su di una questione ancora non del tutto sopita, pur a distanza di due anni dall’emanazione del Decreto. In particolare, ha chiarito che destinatarie della disciplina sono solo quelle società partecipate dalle Amministrazioni, o, comunque, affidatarie di un ruolo strumentale (produzione di servizi o esercizio di funzioni ex lege), e non pure le società di proprietà pubblica che operano, da imprese, in mercati concorrenziali[6].
 
Dopodiché, la sentenza ha proceduto allo scrutinio delle disposizioni sotto una duplice prospettiva: l’esame si è incentrato, partitamente, sia sull’oggetto, sia sulle finalità dell’art. 13.
Tenendo conto dell’oggetto, la sentenza ha potuto pianamente rilevare che il gruppo di norme si ascrive alla materia “ordinamento civile” di competenza esclusiva dello Stato. Ciò in quanto le disposizioni mirano a disciplinare il regime giuridico di soggetti di diritto privato e “a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private”.
Ma anche esaminando le disposizioni sotto l’altra prospettiva (le finalità perseguite), l’approdo non è stato dissimile; una volta assodato che l’obiettivo dichiarato e pure evincibile dalle disposizioni è quello di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali, integrando fattori distorsivi della concorrenza, è stato agevole, per la Corte, concludere che esse si ascrivono alla “materia” della tutela della concorrenza, anch’essa di sicura competenza esclusiva statale.
 
A questo punto, ai nostri fini – e cioè quelli che più interessano la lettura dell’art. 13 e la risoluzione delle questioni interpretative connesse all’applicazione delle disposizioni ivi contenute – la sentenza non avrebbe più avuto ulteriore utilità se la Corte non avesse svolto i cd. test[7] di adeguatezza/appropriatezza sulla disciplina per verificarne, compiutamente, la riconducibilità alle finalità inerenti la “tutela della concorrenza”.
Ed è in questa sede che la Corte, pur non avendo rilasciato, si badi, alcuna patente di legittimità alle misure pur esaminate[8] – ha riconosciuto solo l’astratta idoneità delle medesime a riconnettersi alla materia di competenza statale – ha offerto, invece, ulteriori indicazioni sui contenuti delle disposizioni esaminate.
 
Ha innanzitutto affermato che l’oggetto sociale esclusivo (la previsione di), unitamente alla separazione societaria, di fatto imposta, cospira ad assicurare che soggetti con posizione di privilegio (le società affidatarie di compiti strumentali che svolgono attività amministrativa di diritto privato) non possano alterare la parità della competizione, accedendo al mercato.
Ma così ha chiarito, confermando quanto era emerso sin dalle prime riflessioni in dottrina[9], che con la previsione dell’oggetto sociale esclusivo il Legislatore ha inteso prescrivere uno specifico obbligo che sorge proprio in conseguenza della riscontrata e genetica strumentalità; l’oggetto sociale esclusivo è da introdurre con adeguata normativa statutaria; ciò perché così facendo si “blinda” la strumentalità, la quale, oltre che a discendere dalla legge, deriverà anche dalla coerente disciplina statutaria.
Mentre non è pensabile desumere che il Legislatore abbia prescritto l’inverso, ossia che dall’oggetto statutario si possa desumere la strumentalità[10], anche perché, d’altronde, la tipologia descritta nello statuto non è sufficiente, sovente, ad imprimere, da sola, la strumentalità.
 
La sentenza si sofferma, poi, sul divieto di detenere partecipazioni che aveva sollecitato l’interesse della dottrina[11] anche a seguito dei rigorosi orientamenti espressi dalla giurisprudenza amministrativa e dall’Autorità di vigilanza, le quali sembravano aver interpretato in modo generalizzato ed indifferenziato il divieto di cui all’art. 13[12]. Ciò contenendo non poco i margini organizzativi delle società in parola.
In particolare, la decisione, dopo avere ribadito che il divieto di detenere partecipazioni in altre società o Enti è ordinato ad evitare che le società eludano i divieti, partecipando indirettamente a soggetti che operano nel mercato, ha rilevato che sarebbe del tutto irragionevole tentare di desumere dalla disposizione un divieto generalizzato di partecipare a qualsiasi società o ente; ciò perché il divieto può solo riguardare quelle partecipazioni a soggetti che operano in settori preclusi alla società.
Quindi si deve ritenere che la disposizione non vieti la partecipazione in altre società o la costituzione di gruppi societari vocati, interamente ed esclusivamente, a svolgere la missione strumentale. Da qui la riespansione della capacità organizzativa degli Enti pubblici proprietari e delle stesse società in parola.
 
In fine, la sentenza conclude apprezzando la non irragionevolezza delle misure disposte (la nullità) sui contratti in violazione delle norme del divieto, conclusi successivamente all’entrata in vigore del decreto; secondo la pronunzia esse costituiscono sanzione a completamento delle disposizioni.
Tale conclusione appare più che condivisibile, anche perché la pronunzia avrebbe potuto rilevare – sia consentito soggiungere – che la sanzione della nullità sarebbe derivata comunque dall’applicazione della disciplina del codice civile, che sanziona con la nullità i contratti ad oggetto illecito o impossibile (senza necessità di un’espressa prescrizione in tal senso da parte del Decreto Bersani).
 
3. A questo punto non si può non rilevare che in questa attività di ricognizione e di verifica di contenuti ad approccio all’apparenza esaustivo – resa ai fini del test sull’adeguatezza ai contenuti della tutela della concorrenza – è mancata qualsiasi valutazione circa la ragionevolezza e l’appropriatezza delle misure previste per i contratti stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto.
L’art. 13, infatti, dispone pure per detti contratti; esattamente prevede che, in difetto di cessione da parte della società, essi sono destinati a divenire inefficaci, per factum principis,allo scadere del termine di cui al III comma dell’art. 13 (termine che ha avuto strane vicissitudini: dapprima 12 mesi, poi divenuto 24 mesi ed oggi, dopo l’ennesima modifica, elevato a 30 mesi).
Orbene, l’assenza di qualsiasi valutazione su questa prescrizione che, ad avviso di chi scrive, rappresenta il contenuto più debole e contestabile dell’intero art. 13 – sia sotto il profilo dell’utilità della misura, sia sotto il profilo della legittimità costituzionale – è poco comprensibile, se non addirittura sorprendente.
Sul punto la dottrina aveva espresso argomentati dubbi e pure paventato il sorgere di cospicuo contenzioso[13], se non altro perché questo sarebbe stato strumentale per portare al cospetto della Corte la questione sulla legittimità di una disposizione che contiene una sanzione che, quanto alle conseguenze, dispone, nella sostanza, un effetto ablativo sugli effetti del contratto al pari di una sanzione di nullità sopravvenuta (con effetto ex nunc), la quale si presenta assai gravosa per contraenti che hanno stipulato il contratto in buona fede riponendovi, lecitamente, il proprio affidamento.
A tal proposito, va tenuto presente che i contratti in essere alla data dell’entrata in vigore del decreto integrano, assai probabilmente, transazioni commerciali vantaggiose per il soggetto terzo contraente, sia esso una pubblica amministrazione, sia esso un soggetto privato. E ciò perché non è revocabile in dubbio che i contraenti (terzi) che hanno stipulato l’accordo con le società delle amministrazioni regionali e locali lo abbiano fatto previo ed accurato esame dell’opportunità del medesimo. Cosicché la disposta inefficacia provocherà sul patrimonio del contraente (non ceduto) un decremento conseguente alla perdita del diritto di credito residuo nei confronti delle prestazioni che la società strumentale si era impegnata ad erogare per la durata successiva alla data prevista dall’art. 13; decremento che, ovviamente, potrà avere anche una consistenza rilevante (quanto più gravose saranno le condizioni per reperire sul mercato le medesime prestazioni).
Ebbene, a fronte di tali conseguenze, non sembra che la disposta inefficacia rinvenga giustificazione né nell’esigenza di rendere effettivo il quadro di misure di cui all’art. 13, né nella tutela della concorrenza.
Non solo; la disposizione contiene pure profili di irragionevolezza intrinseca.
Ciò perché l’evento-danno sul terzo dipenderebbe esclusivamente dall’azione (rectius dall’inerzia) della società dell’amministrazione locale; è questa infatti che può evitare la sanzione curando la cessione del contratto a terzi nel termine di legge; mentre l’art. 13 si disinteressa di prevedere poteri di intervento del terzo o una misura di compensazione.
Per quanto richiamato, seppur in estrema sintesi[14], pare potrebbero sussistere concorrenti ragioni per ritenere che l’art. 13, in parte qua, presenti profili di dubbia compatibilità con gli artt. 3 e 41 della Costituzione; così come potrebbe per questo spiegarsi perché la Corte, che non era tenuta all’esame di tutta la disposizione (ai fini del test sopra illustrato), abbia omesso di pronunziarsi proprio sulla parte che fa sorgere i dubbi di maggiore consistenza.
D’altra parte, non è casuale che il Legislatore sia di recente intervenuto a modificare l’art. 13 e lo abbia fatto solo per differire il temine di cui all’art. 13, così posponendo, in attesa di un più generale ripensamento, gli effetti di una disposizione che si presenta eccessiva per entrambe le parti contraenti e, soprattutto, per il terzo (non ceduto).

 


[1] Il riferimento è alle misure di contenimento della spesa e di razionalizzazione contenute nelle plurime disposizioni della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (artt. 1, commi 587-593, 721-730, 733-735) ed, infine, ai divieti e agli obblighi introdotti dall’art. 3, commi 27 e ss. della L. 24 dicembre 2007, n. 244.
[2] Già nei primi commenti, resi a ridosso dell’emanazione del decreto e della legge di conversione, la dottrina aveva avuto modo di mettere a fuoco gli interrogativi di maggiore cifra. Si vedano B.E.G. Fuoco, Le società in house abbandonano il mercato?, in LexItalia.it, www.lexitalia.it; L. Manassero, Profili problematici dell’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 233 in tema di affidamenti in house, in Altalex, www.altalex.com; Idem, Commento alla versione definitiva dell’art. 13 del c.d. decreto Bersani come convertito dalla L. 4 agosto 206 n. 248, con particolare riferimento agli effetti sull’attività delle società pubbliche locali, 14 settembre 2006, in Diritto dei servizi pubblici, www.dirittodeiservizipubblici.it; G. Guzzo, Affidamenti in house: dl “Bersani” e dl di delega n. S-772 del 4 luglio 2006 tra Costituzione e giurisprudenza comunitaria, Ibidem, 19 settembre 2006; R. Mangani, Spa miste, il decreto Bersani apre agli affidamenti in house, in Edilizia e Territorio, 23 ottobre 2006; P. Anselmo, L. Comberiati, Affidamento diretto e concorrenza nel decreto Bersani. L’incertezza continua, 7 dicembre 2006, in Diritto&Diritti, www.diritto.it; così anche in scritti più recenti, D. Lamanna Di Salvo, L’affidamento diretto nel decreto Bersani: un’analisi comparativa della novella del 2006 alla luce del diritto comunitario, in Giur. di merito, 2007, 1980 e ss. Per un esame più ampio e analitico si vedano i commenti più recenti di M. Cammelli, M. Dugato, Le società degli Enti territoriali alla luce dell’art. 13 delDL. N. 223/2006, in Studi in tema di società a partecipazione pubblica, Torino, 2008, p. 347 e ss.; B. Caravita di Toritto, È veramente pro-concorrenziale l’art. 13 del decreto Bersani?, 2 maggio 2007, in Federalismi.it, www.federalismi.it; G. Caia, Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza, in GiustAmm.it, www.giustamm.it.; A.Vigneri, Tutela della concorrenza e organizzazione amministrativa. Sulle recenti iniziative del Governo, in Astrid, rassegna n. 34 del 2006, www.astrid-online.it.; D. Masetti, Le società partecipate dalle Amministrazioni pubbliche regionali e locali ed i loro limiti funzionali, in GiustAmm.it, www.giustamm.it; G. Bassi, I nuovi limiti dell’intervento pubblico in economia: qualche riflessione sul piano giuridico ed economico-aziendale a seguito della conversione del decreto sulle liberalizzazioni e delle prospettive di riforma nel settore dei servizi pubblici locali, in Appalti&Contratti, 2006, 21; M. Ricciardelli, Due riforme di interesse regionale: l’art. 13 del d.l. 223/2006 convertito dalla Legge 248/2006 ed i servizi pubblici locali, in Osservatorio Legislativo Interregionale, Roma, 14-15 dicembre 2006; S. Rostagno, Criticità delle soluzioni e prospettive del decreto Bersani in tema di modello in house, affidamenti diretti e contratti a valle, 3 agosto 2006, in GiustAmm.it, www.giustamm.it. I Le questioni interpretative, nonché le problematiche scaturite durante l’applicazione vengono poi affrontate, sia consentito il richiamo, nel lavoro monografico di chi scrive D. Florenzano, Le società delle amministrazioni regionali e locali, Padova 2008, pp. 1-181 
[3] Le decisioni che hanno affrontato l’interpretazione dell’art. 13 del “decreto Bersani” sono: TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 23 gennaio 2007, n. 193; TAR Piemonte, Sez. II, 4 giugno 2007, n. 2539; TAR Lazio, Sez. II, 5 giugno 2007, n. 5192; TAR Lazio, Sez. I, 3 maggio 2007, n. 3893; TAR Lazio, Sez. I ter, 20 febbraio 2007, n. 1486; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 31 gennaio 2007, n. 140; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 19 ottobre 2007, n. 6137; TAR Veneto, Sez. I, 22 gennaio 2008, n. 146; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 21 febbraio 2008, n. 563; Cons. Stato, Sez. II, Parere 18 aprile 2007, n. 456; Cons. Stato, Sez. III, Parere 25 settembre 2007, n. 322; TAR Puglia, Sez. Lecce, 31 dicembre 2007, n. 4592; TAR Lazio, Sez. III, 21 marzo 2008, 2514; TAR Veneto, Sez. I, 31 marzo 2008, 788; Cons. Stato, Sez. V, 23 ottobre 2007, n. 5587; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 31 marzo 2008, n. 1641; TAR Sardegna, 11 luglio 2008, n. 1371; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 4 luglio 2008, n. 880; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 26 giugno 2008, n. 6215: TAR Lazio, Roma, Sez. III, 30 giugno 2008, n. 6333; TAR Lazio, Roma, Sez. II ter, 30 aprile 2008, n. 3620; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 14 aprile 2008, n. 3109; Cons. Stato, Ad plen., 3 marzo 2008, n. 1; Cons. Stato, Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 946; Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080. Dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, si segnalano la deliberazione 9 maggio 2007, n. 135, nonché i pareri dd. 4 ottobre 2007, n. 61, 20 marzo 2008, n. 91 e 31 luglio 2007, n. 213.
[4] Basti considerare l’orientamento che tende ad includere tra i destinatari del divieto tutte le società partecipate dalle Amministrazioni regionali e locali anche se esse siano solo imprese pubbliche che operano nel mercato a parità di condizioni con altri operatori (Cons. Stato, Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 946; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 31 marzo 2008, n. 1641; Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, parere 31 luglio 2007, n. 213), ovvero l’orientamento, non meno incomprensibile, che pretendeva, in nome dell’art. 13, applicare il divieto di contrarre con terzi anche alle società che erogano servizi pubblici e ciò, prima, con riferimento ad ipotesi non disciplinate dall’intervenuto art. 23 bis del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 (Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080; TAR Sardegna, 11 luglio 2008, n. 1371).
[5] La praticabilità di un’interpretazione estensiva della disciplina de qua e la non eccezionalità delle previsioni sono state espressamente affermate da Cons. Stato, Ad. Sez. III, parere 25 settembre 2007, n. 322; TAR Lombardia, Sez. I, 31 gennaio 2007, n. 140; e più di recente, Cons. Stato, Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 946.
[6] Viene offerta così una chiave di lettura per superare i precedenti indicati nella nota 4.
[7] Vedi Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 14 e, di recente, 14 gennaio 2008, n. 1.
[8] Così invece, A. Lirosi T. Paparo, Dalla Consulta a Palazzo Spada: nuovi vincoli per le Spa miste, in Edil. e Terr., 2008, n. 37, p. 7. 
[9] M. Cammelli, M. Dugato, op. cit., 357 e ss., S. Rostagno, op. cit.; L. Manassero, Commento …, cit.; contra G. Caia, op cit.
[10] Da ultimo sembra assecondare la ricostruzione inversa e recessiva TAR Sardegna, Sez. I, 11 luglio 2008, n. 1371.
[11] Si vedano M. Cammelli, M. Dugato, op. cit., 368 e ss., G. Caia, Norme per la riduzione , cit, D. Florenzano, op cit., 77; contra L. Manassero, Profili problematici …, cit.
[12] TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 31 gennaio 2007, n. 135; Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, parere 9 maggio 2007, n. 135.
[13] B. Caravita di Toritto, op. cit.
[14] Per un’analisi più ampia sia consentito il rinvio a D. Florenzano, op cit.,148 e ss.; pure: M. Cammelli, M. Dugato, op. cit., 362. e ss.
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a cura di prof. Gian Antonio Benacchio e dott. Michele Cozzio