Presentazione
sei in Dottrina / Approfondimenti
Approfondimenti

LA POTESTÀ LEGISLATIVA IN TEMA DI CONTRATTI PUBBLICI. LA CORTE “SALVA” IL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI.
Nota a sentenza della Corte Costituzionale, 23 novembre 2007, nr. 401*

dott.sa Alessandra Cecchini

*(estratto da Informator, 2, 2008)

In via di principio lo Stato può legittimamente esercitare le potestà legislative, regolamentari e amministrative al fine di disciplinare l’ambito dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Non sono illegittime, pertanto, le disposizioni contestate del D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in quanto tali prescrizioni non risultano lesive delle competenze costituzionalmente garantite alle Regioni e alle Province Autonome né dei principi di leale collaborazione, sussidiarietà, adeguatezza, proporzionalità, buon andamento ed imparzialità dell’Amministrazione, ad eccezione dell’art. 5, II comma, in riferimento alla menzione delle “Province Autonome”, dell’art. 84, II, III, VIII e IX comma, nella parte in cui, per i contratti inerenti a settori di competenza regionale, non prevede che le norme in esso contenute abbiano carattere suppletivo e cedevole, e dell’art. 98, II comma. Le nuove disposizioni statali non comportano, ai sensi dell’art. 2 del D.lgs. 266 del 1992, la diretta abrogazione delle Leggi Provinciali preesistenti, ancorché incompatibili (bensì comportano un obbligo di adeguamento).
 
***
 
1. Con la pronuncia, la Corte costituzionale, affrontando le plurime questioni sollevate sul cd. “Codice dei contratti pubblici”, ha avuto l’occasione di illustrare, anche esaminando precedenti ricostruzioni giurisprudenziali e avviate sistemazioni dottrinali, la collocazione di tale scorcio di disciplina nell’ambito del sempre problematico riparto di competenze tra Stato e Regioni, raccordando la fonte codicistica sia alle indicazioni comunitarie sia alle norme della Costituzione ed indicandone, di conseguenza, la ratio.
Infatti, dopo aver ripercorso l’iter che ha dato luogo all’emanazione del Codice, la Corte si è affidata alla circostanza – divenuta centrale nella pronuncia – che il “Codice” aspiri all’adeguamento del nostro Ordinamento ai principi già generalmente affermati nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957 ed, in particolare, ai «principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei servizi, nonché dei “principi che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza” [1].
Essendo, tra l’altro, indubitabile che il Codice dei contratti pubblici sia stato redatto successivamente ed in adempimento alle direttive comunitarie 2004/17/CE e 2004/18/CE, la circostanza è stata valorizzata ed eretta ad argomento fondamentale dalla Corte per “ridefinire” il riparto di competenze tra Stato e Regioni.
Senza poi contare il richiamo che ha, altresì, compiuto del principio della tutela della libera concorrenza, già menzionato dal legislatore comunitario, anche e soprattutto in riferimento ai contratti pubblici, come strumento per arginare la concessione da parte degli Stati membri di diritti speciali od esclusivi a vantaggio dei fattori dell’economia nazionale [2].
In via di estrema sintesi, la pronuncia, alla luce degli intenti del legislatore comunitario, prende atto che all’interno della macroarea comunitaria dev’essere garantita l’apertura dei mercati alla libera concorrenza ed assume – ed è questa l’affermazione più rilevante – che la differenziazione tra discipline regionali collide con tale aspirazione. In altre parole, ritiene che l’effettiva apertura dei mercati non possa essere assicurata da una legislazione statale che lasci alle Regioni la possibilità di prevedere, in ambito di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, discipline che, seppur conformi alle indicazioni offerte dalle direttive comunitarie, siano differenziate.
Ne è conseguito il rigetto di gran parte delle questioni proposte, forse un po’ troppo affrettatamente, dalle Regioni.
 
2. Addivenendo, quindi, alle suddette questioni, è necessario rilevare che le Regioni avevano rinvenuto nell’omogeneizzante normativa codicistica una lesione delle potestà riconosciute loro dalla Carta Costituzionale ed, in subordine, avevano constatato - con particolare riferimento al III comma dell’art. 4 del Codice – che, quantunque giustificata l’ingerenza statale in nome della “tutela della concorrenza” in ambito di contratti pubblici, “la disposizione in esame non rispetterebbe i canoni di ragionevolezza e di proporzionalitàin quanto determina l’assoggettamento indiscriminato alla normativa anche di dettaglio del Codice in relazione a tutti gli oggetti individuati dalla norma, per ciascuno dei quali è ravvisabile invece uno spazio in cui legittimamente può esprimersi l’intervento normativo regionale”. Di conseguenza, era stato, altresì, denunziato che “anche per gli ambiti della qualificazione e selezione dei concorrenti, procedure di affidamento, criteri di aggiudicazione, subappalto, ove il principio di tutela della concorrenza trova più importante esplicazione, sono pur sempre riscontrabili aspetti ove la più puntuale soddisfazione di peculiarità differenziate dei territori regionali o di esigenze dell’autonomia organizzativa dei diversi enti pubblici può legittimamente ed utilmente fondare l’esplicazione di normativa regionale. E ciò particolarmente rispetto ai contratti pubblici ‘sotto soglia’”»[3].
Ora, è indubbio che il primo ordine di considerazioni addotto dalle Regioni trovava fondamento nella consapevolezza (o nel pregiudizio) che la Riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, avesse loro apportato un generalizzato accrescimento della potestà legislativa e, soprattutto, il riconoscimento di un ruolo nella formazione ed attuazione del diritto comunitario (art. 117, III e V comma, e art. 120, II comma) [4].
Come è noto, secondo alcuni la “materia” dei lavori pubblici, i servizi e le forniture, non essendo contemplata dall’art. 117 della Carta Costituzionale, tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato (II comma) e tra quelle di competenza concorrente (III comma), dovrebbe essere considerata, ai sensi della clausola di riserva generale del IV comma della medesima disposizione e coerentemente con la ratio della Riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione (di attuazione del “principio fondamentale” dell’art. 5 e, quindi, di valorizzazione del ruolo delle Regioni e degli altri Enti Locali), come materia di competenza residuale[5].
D’altra parte, già prima della Riforma, l’art. 117 disponeva che i “lavori pubblici d’interesse regionale” rientrassero tra le materie rispetto alle quali le Regioni potevano emanare norme legislative, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle Leggi dello Stato e sempreché le norme stesse non fossero in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni (cfr. Corte Cost. 9 luglio 1993, n. 308) [6].
Cosicché, pur volendo seguire le tesi più moderate, la “materia” avrebbe dovuto essere considerata, perlomeno, di competenza legislativa concorrente; da alcuni, a tal riguardo, viene suggerito che gli appalti ineriscano alla materia del “governo del territorio”, la cui ampiezza è stata descritta proprio dalla Corte (S. n. 307 del 2003) come comprensiva “...in linea di principio, tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti e attività[7] .
Va, d’altro canto, precisato che queste ricostruzioni scontano tutte la precarietà della configurazione dell’ambito in esame come “materia”; tale assunto era stato messo in dubbio dalla stessa Corte, già con la pronuncia del 1 ottobre 2003 n. 303, con cui aveva chiarito che, ai fini dell’individuazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, i contratti non possono essere considerati come una vera e propria materia, giacché di essi va valutato l’oggetto a cui, di volta in volta, afferiscono[8].
 
3. Orbene, la sentenza in esame completa ed esplica detta sistematizzazione.
Probabilmente anche per far fronte alla necessità di un’applicazione uniforme delle direttive comunitarie 2004/17/CE e 2004/18/CE sul territorio nazionale, la Corte ha esteso l’affermazione della “non materia” all’intera attività contrattuale della Pubblica Amministrazione, includendo, pertanto, pure i contratti relativi ai servizi e alle forniture[9].
Per inciso, si noti come il medesimo concetto di “non materia” sia uno strumento giurisprudenziale che, al pari della c.d. chiamata in sussidiarietà ex art. 118 della Costituzione (cfr. Corte Cost. n. 303 del 2003 e n. 270 e n. 285 del 2005) e della pervasività dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente (cfr. Corte Cost. n. 286 e 324 del 2005), legittima l’intervento dello Stato, al di là delle competenze strettamente riservategli dalla lettera dell’art. 117 della Carta Costituzionale, seppur sempre nell’osservanza dei principi della proporzionalità e della ragionevolezza[10]; infatti, non ha trovato alcuna conferma giurisprudenziale l’opposta e contraria interpretazione di parte della dottrina, secondo cui tale concetto lascerebbe, invece, spazio all’intervento delle Regioni in ambiti di competenza legislativa esclusiva dello Stato[11].
Pertanto, in nome della prevalenza del perseguimento di obiettivi di portata sovranazionale, quale quello della già menzionata libera concorrenza all’interno del mercato comunitario, oltre che delle “materie” dell’ordinamento civile e della giurisdizione e giustizia amministrativa, tutte previste al II comma dell’art. 117 (nella competenza legislativa esclusiva dello Stato) è pienamente legittimato l’intervento statale in ambito di contratti pubblici[12]; è da rilevare che, in tal modo, la pronuncia è riuscita a sostenere, a differenza di quanto statuito nella sentenza n. 303 del 2003, la potestà dello Stato di emanare, senza dover osservare particolari forme di collaborazione (leale), una regolamentazione esecutiva ed attuativa del Codice[13] e l’inidoneità di prevedere, per i contratti di “rilevanza comunitaria” e per quelli “sottosoglia”, una clausola di cedevolezza[14].
D’altro canto, il Giudice delle Leggi ha affermato, in favore (se così si può dire) delle Regioni a Statuto ordinario, che lo Stato deve attenersi ai principi della proporzionalità e della ragionevolezza; ciò, invero, non deve intendersi come divieto per lo stesso Stato di predisporre una normativa di dettaglio. Per l’appunto, la Corte ha asserito, con particolare riferimento alla tutela della concorrenza, che “una volta che sia stata riconosciuta come riconducibile alla materia in questione la normativa statale, la stessa può avere anche un contenuto analitico. La proporzionalità e l’adeguatezza non si misurano, infatti, avendo riguardo esclusivamente al livello di dettaglio che connota quella specifica normativa. Se così fosse si verificherebbe un’identificazione non consentita tra materie concorrenti e materie trasversali di competenza esclusiva che, invece, ricevono dalla Costituzione una differente disciplina[15].
 
4. Per quanto concerne le Regioni ad autonomia speciale e, nello specifico, la Provincia Autonoma di Trento, la Corte ha dichiarato inammissibile la questione della lesione della competenza normativa primaria della ricorrente[16], per difetto d’interesse, sussistendo nel Codice, in particolare, un’apposita “clausola di salvaguardia” (art. 4, V. co.: “Le Regioni a Statuto Speciale e le Province Autonome di Trento e di Bolzano adeguano la propria legislazione secondo le disposizioni contenute negli Statuti e nelle relative norme di attuazione”). A tal proposito, la Corte ha, quindi, rinviato al meccanismo prefigurato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 266 del 1992, secondo cui l’emanazione di nuove norme statali non determina una diretta abrogazione di Leggi Provinciali preesistenti, ma solo un obbligo di adeguamento entro i sei mesi successivi alla pubblicazione dell’atto legislativo statale nella Gazzetta Ufficiale o nel più ampio termine stabilito. D’altro canto, al mancato adempimento di siffatto obbligo può opporsi il Governo proponendo ricorso contro le Leggi Provinciali non adeguate[17].
Sia consentito, da ultimo, richiamare all’attenzione che, nonostante la pronuncia sembri riferire il meccanismo dell’art. 2 del D.Lgs. n. 266 del 1992 alle sole Leggi Provinciali, il precetto opera anche nei confronti (ed in favore) della legislazione della Regione Trentino Alto Adige[18]. Ora, anche se sovente sfugge, in via di principio, appartiene alla medesima la potestà di normare le attività contrattuali che afferiscono alle materie di propria competenza legislativa (e le ipotesi non sono poche o irrilevanti, trattandosi di competenze cd. “ordinamentali”: ordinamento degli Uffici Regionali e del personale ad essi addetto, degli Enti Para- Regionali, Circoscrizioni Comunali, Enti Sanitari ed Ospedalieri, Camere di Commercio, Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, degli Credito Fondiario e di Credito Agrario, Casse di Risparmio e delle Casse Rurali, nonché Aziende di Credito a carattere regionale)[19]. Sembra che di tale prerogativa si sia dimenticato anche il Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice, che, nella versione da ultimo redatta, non estende la clausola di non applicazione alla Regione. Tuttavia, la Regione, come si sa, per quanto concerne la disciplina dei propri contratti, già esercita la suddetta potestà, operando un rinvio, con L.R. del 22 luglio 2002, n. 2, alla normativa provinciale di Trento[20].
 

 


[1] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 2.1, in cui si cita il Considerando n. 2 della Direttiva 2004/18/CE.
[2] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 2.1 e 6.7, in cui rinvia rispettivamente alla sentenza 336 del 2005 e alle sentenze 14 del 2004, 29 del 2006, 272 del 2004). Ancora, al punto 6.7, la Corte ha affermato che “sul piano interno, l’osservanza di tali principi costituisce, tra l’altro, l’attuazione delle stesse regole costituzionali della imparzialità e del buon andamento, che devono guidare l’azione della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost.. Deve, anzi, rilevarsi come sia stata proprio l’esigenza di uniformare la normativa interna a quella comunitaria, sul piano della disciplina del procedimento della scelta del contraente, che ha determinato il definitivo superamento della cosiddetta concezione contabilistica, che qualificava tale normativa interna come posta esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione, anche ai fini della corretta formazione della sua volontà negoziale”. Per inciso, il Trattato istitutivo della Comunità Europea, nella sua attuale versione, dedica espressamente il Capo I del Titolo VI alle “Regole di concorrenza”.
[3] Questa è, in particolar modo, la difesa adottata dalla Regione Piemonte, nel criticare quella parte del III comma dell’art. 4 del Codice, che prescrive che “le Regioni, nel rispetto dell’art. 117, II comma, della Costituzione, non possono prevedere una disciplina diversa da quella del presente Codice” in relazione ad una serie di settori e senza indicare quali siano le materie che vengono in rilievo (cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 6.7 e in fatto, punto 3.2).
[4] Appunto per questo, risulta evidente che le controversie sorte tra Stato e Regioni (e Province Autonome) in merito alla disciplina del D.Lgs. 163 del 2006, attengono, invero, alla controversa esegesi dell’articolo 117 della Costituzione, rispetto al quale la fonte di rango inferiore (il Codice), non può affermare nulla di nuovo o di diverso (cfr. Varrone L., Riparto di competenze Stato- Regioni nel Codice degli Appalti (artt. 4- 5), in Commento al Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture – D.Lg. 12 aprile 2006 n. 163 a cura di Sanino M., Utet, Milano 2006, pp. 49- 51, ove sostiene che l’articolo 4 ha solo una funzione descrittiva, ricognitiva delle materie affrontate e semplificativa dell’attività esegetica). Secondo lo stesso Autore, non era necessario disciplinare il riparto di competenze legislative tramite Decreto Legislativo, ma forse era opportuno per evitare qualche contenzioso (speranza vanificata col ricorso in oggetto). Allo stesso modo, Pallottino M., Di alcuni problemi in tema di concessioni, attribuzioni Stato- Regioni, autorità di vigilanza, opere a scomputo e tutela “ante causam”, n. 7- 2006, www.giustamm.it, afferma che l’articolo 4 del Codice correttamente ed opportunamente ha individuato le singole parti della materia, incasellandole poi in uno dei tre regimi dell’articolo 117, evitando un vasto contenzioso innanzi alla Corte Costituzionale.
La questione controversa, quindi, in giurisprudenza attiene all’interpretazione dell’art. 117 della Cost. ovvero alla difficoltà di definire in modo chiaro le diverse “materie” a cui l’articolo si riferisce. “La necessità di individuare la “materia” di cui si tratta è decisamente più sentita (…) oggi che in passato. In passato, come si sa, la giurisprudenza costituzionale aveva progressivamente spostato la sua attenzione verso il “variabile livello degli interessi”, trascurando di utilizzare gli altri limiti di legittimità della legge regionale, tutti sistematicamente ricostruiti sulla base della distinzione tra “interesse nazionale” e “interesse regionale”. (…) Oggi, dopo la riforma costituzionale del 2001, la considerazione delle “materie” torna invece a occupare la scena. (…) La segmentazione della potestà legislativa in tre tipologie, distinta in base ad elenchi di “materie”, è infatti densa di conseguenze non solo per l’astratta assegnazione della competenza, ma anche per una serie di implicazioni in merito, per esempio, alla titolarità di funzioni amministrative e regolamentari, la gestione degli strumenti finanziari, la previsione o meno di strumenti della “leale collaborazione”, la definizione del loro grado di “intensità” ecc. (Bin R., I criteri di individuazione delle materie, Le Regioni 2006, 890). D’altro canto, sono noti i limiti dell’adozione della “materia”, quale criterio essenziale di riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni, pervicacemente seguito dalla legge costituzionale 3 del 2001 (alla stessa stregua del testo originario della Costituzione): “ciò in quanto le materie non hanno una fisionomia giuridica”» (cfr. Brocca M., Parco culturale, beni ambientali e ponderazione degli interessi sottesi, Riv. giur. ambiente 2003, 767, nel citare Giannini). Bin R., op. ult. cit., 891 ha evidenziato, infatti, che “in passato i “contenuti” delle “materie” erano – almeno in parte – definiti in via legislativa, attraverso i decreti delegati di trasferimento delle funzioni amministrative: e il processo di formazione di questi decreti nasceva da un’opera di ricognizione delle funzioni concretamente esercitate dalle strutture ministeriali, legata quindi a una certa concretezza che poi portava con sé, almeno in linea di principio, oltre alla definizione delle funzioni da trasferire, anche quella delle strutture, del personale e delle dotazioni finanziarie. Oggi non è più così, vuoi perché molte delle “materie” elencate nell’articolo 117 non hanno dietro di sé specifiche strutture ministeriali (…); vuoi perché non si è ritenuto opportuno produrre una nuova generazione di decreti di trasferimento delle funzioni, che desse concretezza alle materie”.
[5] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 3. Secondo Magro C., Gli appalti pubblici nel mutato clima di riforma costituzionale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, «la verifica dell’esistenza della materia “appalti pubblici” si potrebbe dedurre in primis dal diritto comunitario (L.S. Rossi, Gli obblighi internazionali e comunitari nella riforma del Titolo V della Costituzione, e Cannizzaro E., La riforma federalista della costituzione degli obblighi internazionali, entrambi in www.unife.it/forumcostituzionale/contributi/TitoloV2.htm)»; pertanto, si potrebbe pure concludere che le Regioni hanno una competenza legislativa esclusiva in materia, se non fosse che “ogni materia non menzionata deve sempre e comunque fare i conti con le riserve esplicite di competenze in favore dello Stato (Vedi in proposito, Rosanna Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001, note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, in Le Regioni 2001, p. 1233. Nello stesso senso anche Cavalieri P., La nuova autonomia legislativa delle Regioni, in Foro italiano 2001, p. 201.
[6] Cfr. Corte Cost., 9 luglio 1993, n. 308, ritenuto in diritto, punto 2.
[7] Cfr. Pantellini I., La disciplina dei contratti pubblici – “Commentario al Codice Appalti”, collana diretta da Caringella F. e De Marzo G., Ipsoa, 2007, p. 43. Secondo l’A., già nella Camera dei Deputati, VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici), Audizione informale delle Regioni sulle problematiche derivanti dall’attuazione informale del D.Lgs. 163 del 2006, nella seduta del 30 gennaio 2007, è stata criticata “- sulla scorta del parere del Consiglio di Stato n. 355 del 2006 – la scelta del legislatore nazionale di ascrivere, ex art. 4, comma 3, del codice, alla competenza esclusiva statale alcuni aspetti – progettazione di lavori, servizi e forniture, direzione di lavori, servizi e forniture ed il collaudo; ciò in quanto si tratterebbe di aspetti che attengono “non solo a profili di tutela della concorrenza, ma anche a profili non marginali di tipo organizzativo, procedurale ed economico”. Sostanzialmente, le Regioni sostengono che l’impostazione dell’art. 4 costituisce “un arretramento rispetto ad una ormai consolidata interpretazione dell’art. 117 della Costituzione che riconosce anche alle Regioni una potestà legislativa, seppure di natura concorrente, nel settore dei lavori, dei servizi e delle forniture pubblici”» (nota 5).
[8] Cfr. Corte Cost., 1 ottobre 2003, n. 303, ritenuto in diritto, punto 2.1. Al punto 2.3, la Corte ha sostenuto, poi, che “la mancata inclusione dei ‘lavori pubblici’ nell’elencazione dell’art. 117 Cost., diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti”.
[9] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 3.
[10] Cfr. Celotto A., Gli appalti pubblici tra competenze statali e competenze regionali. Primi spunti, n. 2- 2006, www.giustamm.it. Secondo Bin R., op. ult. cit., 898- 899, gli strumenti che fornisce la Corte per la risoluzione dei conflitti tra Stato e Regioni sarebbero tre: la contrapposizione tra norma di principio e norma di dettaglio; la prevalenza dell’interesse nazionale; l’invocazione del principio della leale collaborazione. Cfr. Corte Cost., 1 ottobre 2003, n. 303, ritenuto in diritto, punto 2.1. Ivi, la Corte sosteneva che “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente (…) significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell’ordinamento costituzionale tedesco (konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia nel sistema federale statunitense (Supremacy Clause)]”.
[11] La duplice interpretazione del concetto di trasversalità è trattata da Varrone L., op. ult. cit., pp. 47- 49. Ivi, l’A. riporta che «autorevoli commentatori, pur condividendo la finalità di porre rimedio ad evidenti storture della riforma del Titolo V, hanno accusato la Corte di aver voluto reintrodurre il vecchio “interesse nazionale” o comunque di aver riformulato il testo costituzionale introducendovi principi e istituti di pura creazione giurisprudenziale».
[12] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 6.7, ove la Corte ha chiarito che una parte essenziale dell’attività relativa ai contratti pubblici necessita dell’intervento statale in tutela della libera concorrenza, materia che pur essendo di natura trasversale, nello specifico settore degli appalti, comporta la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa. Del resto, già nella pronuncia n. 14 del 2004, la Corte asseriva che “quando l’articolo 117, II comma, lettera e), affida alla potestà legislativa esclusiva statale la tutela della concorrenza, non intende certo limitarne la portata ad una sola delle sue declinazioni di suo significato. Al contrario, proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e, appunto, la tutela della concorrenza, rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale” [Cfr. Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 14, ritenuto in diritto, punto 4]. La concezione estremamente dilatata di tutela della concorrenza, accolta dalla Corte con la sent. 14 del 2004, “non ha mancato di suscitare le reazioni critiche della dottrina, sia perché frutto di una lettura chiaramente strumentale della normativa comunitaria, la quale ricomprende le politiche statali di sostegno del mercato non tra gli strumenti della concorrenza, bensì tra le deroghe ai principi della concorrenza in ambito comunitario, che vengono ammesse, nell’ambito delle politiche regionali e sociali, per favorire lo sviluppo economico e sociale di determinate aree; sia perché, così intesa, essa finisce per mantenere, in capo allo Stato, una sorta di riserva generale ad adottare qualunque misura suscettibile di incidere sull’equilibrio economico generale, venendo invece a ridurre drasticamente i margini di intervento delle Regioni, che dovrebbero rimanere vincolati alla realtà produttiva locale” (cfr. Concaro A. e Pellizzone I., Tutela della concorrenza e definizione delle materie trasversali: alcune note a margine della sent. n. 345 del 2004 della Corte Costituzionale, in www.forumcostituzionale.it).
[13] Nella sentenza 303 del 2003, la Corte «non si (era) spinta fino al punto di sostenere la potestà regolamentare dello Stato in un settore connotato dalla “trasversalità”, con competenze dello Stato al contempo esclusive e concorrenti» (cfr. Pantellini I., op. ult. cit., p. 46, 53).
[14] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 7.5. Cfr. Oreto P., Sentenza con doccia fredda per le Regioni, in www.lavoripubblici.it.
[15] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, ritenuto in diritto, punto 6.7.
[16] Invero, nella sua difesa, la Provincia Autonoma di Trento ha ricordato di avere la potestà normativa primaria e, parallelamente, la potestà amministrativa nella materia dei lavori pubblici d’interesse provinciale nonché di ordinamento degli uffici provinciali e di assunzione diretta di servizi pubblici (cfr. Corte Cost., op. ult. cit., ritenuto in fatto, punto 11.1). Si noti che gli unici limiti alla potestà normativa primaria sono il coordinamento con la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico dello Stato e il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico- sociali della Repubblica. Secondo l’art. 10 della legge cost. 3 del 2001, poi, “sino all'adeguamento dei rispettivi Statuti” alla Riforma del Titolo V, che ha offerto maggiori spazi di autonomia alle Regioni, “le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a Statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano” solo “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
[17] Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2007, n. 401, in diritto, punto 6.1.
[18] Infatti, la Legge 266/1992 è intitolata “Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento”.
[19] Cfr. D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, artt. 4- 7. Comunque, si ricordi che la potestà legislativa primaria della Regione dovrà essere pur sempre esercitata in armonia con la Carta costituzionale e con i principi dell’Ordinamento giuridico dello Stato e nel rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali.
[20] La L.R. 2/02, B.U.R. 30.07.2002, n. 32, esprime, infatti, la coscienza della Regione di poter legiferare rispetto ai contratti pubblici che interessano le materie di sua competenza, decidendo liberamente di applicare, nell’ambito della propria attività, la normativa provinciale di Trento. L’art. 2 della L.R. recita così: “1. La Regione Trentino-Alto Adige applica nell'esercizio della propria attività la normativa provinciale di Trento in materia di lavori pubblici, trasparenza degli appalti, attività contrattuale e amministrazione dei propri beni (LP n. 23/1990 e LP n. 26/1993). 1-bis. Ogni richiamo al territorio provinciale contenuto nella normativa di cui al comma 1 è da intendersi riferito all'intero territorio regionale. 1-ter. È attribuita al direttore dell'Ufficio Tecnico della Regione la competenza ad esprimere il parere tecnico- amministrativo ed economico in merito ai progetti affidati dalla Regione per la realizzazione di lavori pubblici o di interesse pubblico, nei casi in cui la normativa provinciale in materia di lavori pubblici e trasparenza degli appalti attribuisce tale competenza ad organi monocratici. 1-quater. In tutti i casi possibili e fatto salvo quanto stabilito al comma 1-ter, le funzioni svolte da organi provinciali monocratici e collegiali ai sensi della normativa afferente le materie citate al comma 1, sono svolte, nei rispettivi ambiti di competenza, dai corrispondenti organi della Regione. 1-quinquies. La Regione può stipulare apposite convenzioni con l'ente provinciale o comunque acquisire dallo stesso il consenso affinché gli organi consultivi e tecnici istituiti da quest'ultimo nelle materie citate al comma 1, che non trovano un proprio corrispondente nell'ordinamento regionale, esplichino la loro funzione anche in relazione all'attività dell'Amministrazione regionale”. All’evidenza, nel caso in cui non venisse confermata tale potestà normativa (anche regolamentare) della Regione dal Regolamento statale attuativo del Codice, la normativa dello Stato verrebbe ad invadere quegli ambiti che lo Statuto Speciale ha riservato alla Regione. D’altronde, tale rischio poteva già presentarsi con lo schema di Regolamento, approvato in via definitiva il 21.12.2007 dal Consiglio dei ministri, promulgato con D.P.R. del 28.01.2008, successivamente, trasmesso alla Corte dei Conti per il necessario visto di legittimità e, recentemente, ritirato dal Governo per apportare correzioni ed adeguamenti formali.

 

I-38122 TRENTO - Via G. Verdi, 53 - tel. +39-0461-283509 - e-mail. appalti@jus.unitn.it
a cura di prof. Gian Antonio Benacchio e dott. Michele Cozzio