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Qualche considerazione sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, a margine della recente proposta di modifica degli artt. 112 e ss del T.U. degli Enti locali.

(gennaio 2008)

 
di Damiano Florenzano 
Professore straordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento
 
 
 
SOMMARIO: 1. Premessa; 2. DDL. Lanzillotta; 3. Questioni e perplessità che suscita la proposta; 4. Forme di gestione; 5. Disciplina delle forme di gestione
 
 
 
 
Sono ben note le vicende della legislazione statale degli ultimi venti anni in materia di servizi pubblici locali. Dall’accantonamento dell’ambizioso progetto di riforma nella X Legislatura (AS 750) fino al recente d.d.l. AS 772 della XV Legislatura si sono succeduti provvedimenti legislativi e altrettanti progetti di revisione più o meno ambiziosi per giungere alla disciplina vigente che, per quanto concerne le norme generali di ordinamento degli EE.LL., è rappresentata dal combinato tra gli artt. 112 e ss del D.lgs. n. 267/2000  e l’art. 35 della legge 28 dicembre 2001 n. 448.
Se si osservano i contenuti dei provvedimenti e, comunque, delle iniziative legislative di maggiore cifra di questi anni, si ha l’impressione che il Legislatore si sia mosso come sospinto da una coppia di forze (diverse per momento, verso e punto di applicazione), le quali hanno determinato, come inevitabile, un procedere tutt’altro che lineare e progressivo.
Da una parte il Legislatore è stato mosso dall’esigenza di realizzare formule gestionali efficienti e capaci di offrire servizi di qualità; e a tale esigenza, in un primo tempo già con la legge 142/90 è stata data risposta, disponendo il potenziamento delle formule organizzative governate dai medesimi Enti (azienda speciale e s.p.a. mista); forme di organizzazione che, va detto, consentivano anche alla politica locale di mantenere e consolidare bacini di “potere” che solo un elegante eufemismo può consentire di definire come “luoghi di formazione del consenso”.
Successivamente, il Legislatore si è trovato sospinto anche dalla necessità di osservare i principi dell’ordinamento comunitario volti a garantire i medesimi standard di efficacia attraverso l’implementazione del mercato, quindi, dei principi di concorrenza anche nel settore dei servizi pubblici, ossia in un settore che era stato, in un primo tempo, trascurato dalle Istituzioni comunitarie.
Orbene, tali principi non consentivano (e non consentono) agli Enti (ed anche al legislatore nazionale) di disegnare formule organizzatorie che determinano intollerabili compressioni della concorrenza ed erosioni di mercati rilevanti; in altre parole venivano precluse quelle formule organizzatorie che determinavano trattamenti discriminatori tra soggetti - diversi dall’Ente pubblico - nell’accesso all’attività economica di erogazione.
E va da sè che l’influenza dei principi comunitari riguardava principalmente i servizi di interesse economico generale, ossia quelli che, pur nella nebulosa definizione proveniente dalle Istituzioni comunitarie[1], presuppongono l’esistenza di un mercato o comunque l’esistenza (anche potenziale) di una domanda solvibile (definiti come “servizi di mercato[2]) . 
Cosicché, come si ricorderà, in risposta a questa pressione si tentò, seppure in modo affrettato, di dare riscontro con il d.d.l. 7042 (il cd. d.d.l. Vigneri), che pretendeva di introdurre drastiche modifiche agli assetti organizzatori esistenti nel settore, in previsione di una liberalizzazione generalizzata e, forse, non troppo ponderata. Si verificò così che, in difetto dei presupposti, innanzitutto politici, per avviare una così ambiziosa riforma, l’iniziativa decadde con la consumazione della legislatura.
A questo punto, a complicare il compito del Legislatore, che non era stato in grado di operare l’adeguata, e pure improcrastinabile, rivisitazione della disciplina, è intervenuta la revisione del titolo V della Seconda Parte della Costituzione la quale ha ridotto l’ambito di competenza del legislatore statale in materia. Così, ad oggi, nei termini precisati dalla Corte costituzionale, la disciplina sui servizi pubblici locali viene ritenuta rientrante nella potestà residuale delle Regioni[3] ed il Legislatore statale  può contare su titoli di legittimazione offerti da materie cd. “trasversali”. Questi titoli, per definizione, consentono di “interferire” in materie assegnate alla competenza delle Regioni ma, di certo, non dischiudono, di norma, la possibilità di emanare una disciplina esaustiva. E difatti, come la Corte ha avuto occasione di confermare, il legislatore statale può utilizzare la potestà legislativa in “materia” di “tutela della concorrenza” anche per dettare norme pro-concorrenziali (in assenza di mercato); ciò peraltro rimanendo nei confini di un intervento adeguato e proporzionato e comunque rimanendo all’interno della disciplina concernente i servizi di interesse economico generale[4]. Mentre è apparso più difficoltoso giustificare un intervento statale “interferente” (ovvero per ergere un limite alla legislazione regionale) facendo ricorso alle “materie” dell’”ordinamento civile” [5] o delle “funzioni fondamentali di Comuni...”[6] .
Cosicché, non può destare sorpresa se, nella XIV legislatura, il Parlamento, pure sottoposto alle pressioni degli operatori del settore, si sia limitato ad apportare, alla disciplina vigente, quelle modifiche necessarie per rendere quest’ultima (appena) compatibile ai principi statuiti dalle Istituzioni comunitarie, ed anche al fine di scongiurare un procedimento di infrazione già avviato e pure reiterato [7].
E quindi si è giunti alla XV legislatura, nella quale è stato presentato il d.d.l. AS 772 (noto come d.d.l. Lanzillotta) per il “riordino dei servizi pubblici locali”, contenente un’ampia delega al Governo per un complesso ed ampio compito normativo - esteso dai contenuti e dalle modalità dell’affidamento del servizio fino alla tutela dei diritti degli utenti – che, molto probabilmente, a tal ragione, avrebbe valicato la linea di confine che demarca l’ambito della potestà legislativa dello Stato. Durante i lavori, in Commissione ed in Assemblea, al Senato, il testo del d.d.l. originario è stato ampiamente emendato e trasformato, al punto da perdere l’originaria fisionomia, pur mantenendo sempre la funzione della delegazione e l’ambizione riformatrice[8].
 
 
 
Nella congerie di testi e di proposte emendative che hanno caratterizzato l’esame del provvedimento si innesta la recentissima iniziativa governativa presentata sotto forma di emendamento, integralmente sostitutivo del testo sino ad oggi discusso ed esaminato [9].
I dodici commi dell’unico articolo mettono da parte la velleitaria proclamazione delle finalità di riordino (prima contenuta nell’art. 1 del d.d.l.  AS. 772) e, con poche disposizioni, contrassegnate da un’alta cifra di concretezza, sembrano fissare in modo preciso principi e regole essenziali concernenti, in particolare, le forme di (affidamento della) gestione dei servizi pubblici locali, nonché i limiti cui sono sottoposti gli affidatari dei s.p.l. senza gara, il vincolo di destinazione dei beni, il contratto di servizio, le norme concernenti gli affidamenti in corso, la tutela dei diritti degli utenti mercé il rinvio all’art. 101 della legge finanziaria 2008 (che era ancora in corso di approvazione alla data di presentazione dell’emendamento) .
Il provvedimento che, come si vedrà, presenta non pochi aspetti e contenuti problematici, integra un’inversione a centottanta gradi rispetto all’approccio che aveva contrassegnato il d.d.l. AS 772 e anche, per certi versi, rispetto a quello usato dal legislatore negli ultimi anni.
In primo luogo, la proposta ha il pregio di accantonare la soluzione della delega legislativa, la quale aveva ampiamente mostrato le criticità che la contrassegnavano; questa avrebbe procrastinato ulteriormente l’adozione di una disciplina immediatamente applicabile e, soprattutto, avrebbe dato luogo ad una produzione normativa ampia che, molto probabilmente,  non sarebbe rimasta nei confini della competenza legislativa statale, ossia nei limiti delle “materie trasversali” pertinenti, quali quelle della “tutela della concorrenza” e della “determinazione dei livelli essenziali..”[10].
Cionondimeno, la proposta mira ad approvare un testo che non si presenta come una mera modifica alla disciplina vigente, bensì si presenta munito dell’ambiziosa intenzione di disegnare con portata generale i tratti essenziali delle formule organizzatorie (strutturali e contrattuali), applicabili alla gestione dei servizi pubblici locali.
Infatti, pur non proclamando più alcuna finalità di “riordino”, il testo proposto aspira ad abrogare e, di fatto, a sostituire integralmente gli articoli 112, 113  e 113 bis del testo unico n. 267/2000 (per il vero l’art. 113 bis era stato già annullato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 272 del 2004), ossia la disciplina generale dell’ordinamento degli Enti locali in materia di servizi pubblici locali (oltre che gran parte dell’art. 35 della legge 28 dicembre 2001 n. 448).
Non solo; l’emendamento impone l’applicazione della disciplina ivi contenuta a tutti i servizi pubblici locali con la sola eccezione per il servizio idrico. Cosicché disporrebbe l’assorbimento (forse il riassorbimento) nell’ambito di un’unica normativa generale ed unitaria la disciplina delle forme di gestione concernenti anche settori specifici (gas, trasporti, rifiuti etc.); e farebbe venir meno quegli elementi di differenziazione concernenti i principi organizzativi presenti in dette discipline, i quali, in effetti, sono apparsi, in qualche caso, non adeguati e poco comprensibili (si pensi all’esclusione radicale della gestione diretta o “in house” nel servizio di distribuzione del gas).
Senonché la vocazione generale e la portata di rilevante riforma che può scorgersi negli intenti dei proponenti, seppur dissimulate nella straordinaria sobrietà con la quale sono stati declinati i dodici commi dell’articolo, scontano, a parere di chi scrive, tali e tanti aspetti problematici, i quali, a tacer d’altro, ostacolano l’organicità che dovrebbe pertenere ad un succinto sistema di regole, con vocazione generale e destinato ad una duratura applicazione.
  
 
 
Rimanendo sulle linee generali, si rileva che, del tutto singolarmente, il nuovo testo non individua i titoli competenziali in base ai quali il legislatore statale si reputa legittimato ad intervenire; titoli che, scorrendo il contenuto della disciplina, pur potrebbero rinvenirsi, almeno in astratto, nella “tutela della concorrenza” (per la parte concernente le forme di gestione) e nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti s civili e sociali che devono essere garantiti si tutto il territorio nazionale” (per quanto concerne la disciplina che verrebbe disposta mediante rinvio all’art. 101 della legge finanziaria sulla tutela per gli utenti).
In secondo luogo il testo non sembra circoscrivere la portata delle disposizioni all’ambito riconducibile alla categoria dei servizi pubblici di rilevanza economica o, volendo usare la espressione di conio comunitario, dei servizi (locali) di interesse economico generale, ambito nel quale l’intervento del legislatore statale può apparire rispettoso del riparto di competenza stabilito dall’art. 117 Cost. (il riferimento è alle note statuizioni contenute nella sentenza 272/04 della Corte costituzionale). Di certo non può ritenersi idonea a chiarire l’ambito di intervento la locuzione contenuta nella prima parte del I comma, la quale, invece, riportando, per lo più, la perifrasi già presente nell’art. 22 della Legge 142 del 1990, è destinata a richiamare i contenuti descrittivi concernenti (tutti) i servizi pubblici locali tout court(anche quelli privi di rilevanza o interesse economico). A ben vedere, potrebbe essere pure positivamente considerata la espunzione del distinguo - del tutto interno al nostro ordinamento e pure posticcio - tra “servizi di rilevanza economica” e “servizi privi di rilevanza economica”; tale distinguo di incerto contenuto, poiché non riferibile ad alcuna tradizione nazionale e pure non corrispondente a quello usato dal legislatore comunitario, finiva ed ha finito per apportare ulteriori elementi di complessità all’operazione ermeneutica che doveva e deve fare i conti con le categorie comunitarie non nettamente distinte.
In ogni caso, restano gli intuibili problemi interpretativi ed applicativi che possono scaturire dalle omissioni segnalate, tanto più se si considera la vocazione generale della disciplina in esame.
 
 
 
Anche le disposizioni concernenti direttamente le forme di gestione, presentano non pochi aspetti perplessi che offrono spunti per svolgere qualche considerazione di più ampio respiro. Dopo tanti approfondimenti e tensioni tra le forze politiche, la proposta sembra illustrare, nei primi tre commi, il pacchetto (definitivo?) delle forme tipizzate[11] di gestione dei servizi pubblici locali:
a) l’affidamento a società di capitali previa gara;
b) l’affidamento diretto a società mista il cui socio (privato) è stato selezionato con gara e detenga almeno il 30% del capitale;
c) l’affidamento diretto a società in house;
d) la gestione in economia anche tramite aziende speciali o consortili.
Laddove:
-         le forme di cui alle lettere a), b), e c) sono presentate, dal medesimo testo, come “forme di affidamento del sevizio” ;
-         le forme di cui alle lettere a) e b) sono definite “ordinarie” e quindi liberamente opzionabili dagli Enti;
-         la forma di affidamento cui alla lettera c) (affidamento a società in house) è presentata come ipotesi “in deroga” e, pertanto, utilizzabile al ricorrere di una serie anche eccessiva di presupposti (ulteriori a quelli dell’in house);
-         la formula organizzatoria di cui alla lett. d), viene definita in modo onnicomprensivo come forma di gestione in economia, come se non presupponesse un affidamento; cionondimeno essa ricomprende la formula organizzatoria dell’azienda speciale/consortile che, invece, postula un soggetto diverso dall’Ente affidante;
-         in ogni caso anche la formula organizzatoria di cui alla lettera d) deve ritenersi “ordinaria”, poiché non appare subordinata ad alcuno speciale requisito e/o presupposto.
Senza voler così anticipare considerazioni più specifiche, due sembrano essere gli elementi di maggior rilievo che contrassegnano la proposta in esame e che, pur confermando contenuti emersi nei lavori del d.d.l. Lanzillotta, spiccano rispetto al quadro normativo vigente.
 
A) la previsione che configura l’ipotesi dell’affidamento diretto a società in house, come una “deroga”, in quanto essa risulta sottoposta alla sussistenza di particolari presupposti, ulteriori rispetto a quelli che legittimano l’in house secondo la giurisprudenza comunitaria (così definite: “nelle sole situazioni che, per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non consentono un efficace ed utile ricorso al mercato“); previsione che fa il paio con la prescrizione del divieto per le “entità in house” di erogare prestazioni a terzi (pubblici o privati) ivi compresi servizi pubblici, con decorrenza dal 31 dicembre 2008.
 
B) la “riesumazione” dell’azienda speciale.
Non si sa quanto la seconda sia conseguenza della prima (sul piano delle scelte politiche, si intende), ma tant’è.
Certo è che l’azienda (speciale e consortile) viene recuperata e curiosamente collocata tra le gestioni in economia, ossia viene inserita nella famiglia delle forme di gestione “diretta” (intrasoggettiva), e si trascura così sia l’alterità soggettiva che connota la relazione tra Ente e l’Azienda, sia la circostanza che quest’ultima integra, comunque, un esempio di “in house providing”. Ma, forse, detta locuzione deve essere divenuta impronunziabile negli ultimi anni per un legislatore nazionale che, facendo la voce grossa solo con gli Enti locali, ha inteso rendere la vita difficile agli strumenti societari (in house e non) di questi ultimi.
Orbene con tali “novità” il quadro che emerge dalla proposta sembrerebbe fortemente orientato all’apertura delle gestioni dei servizi al mercato dei competitors del settore (rectius dei settori).
In questa prospettiva, la riduzione delle possibilità di utilizzo dell’affidamento a società in house – visto, a torto o a ragione, come elemento di rallentamento per l’apertura dei settori alla “concorrenza per il mercato” e forse, diciamola tutta, considerato come occasione per episodi di politica locale non commendevole e di cattiva gestione – può apparire coerente sia con un processo volto a gemmare misure pro-concorrenziali sia con le iniziative che hanno prodotto altre misure nei confronti di analoghi strumenti delle pubbliche amministrazioni locali (il riferimento è al noto art. 13 del D.L. 223/06 e s.m. e al recentissimo art. 140 della legge finanziaria per il 2008).
Non è questa la sede per aprire una riflessione di ampio respiro sul providing in house e sui fondamenti sistematici della formula organizzatoria [12], certo è - ed andrebbe detto, quantomeno dalla dottrina - che una siffatta scelta (di cancellare o quasi la figura della società in house) non si ascrive alle misure necessitate dall’adeguamento ai principi dell’ordinamento comunitario.
Per confermare questa considerazione è sufficiente richiamare, alla lettera, quanto rilevato dalla Commissione al punto 4.3. nel Libro bianco sui servizi di interesse generale dd. 12 maggio 2004[13]: “In linea di principio gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità per decidere come organizzare i servizi di interesse generale. In assenza di un’armonizzazione a livello comunitario, le autorità pubbliche competenti degli Stati membri sono sostanzialmente libere di decidere se fornire in prima persona un servizio di interesse generale o e affidare tale compito ad un altro ente (pubblico o privato)....[14].
Cosicché, le rigorose condizioni introdotte nel testo dell’emendamento, proprio perché non necessitate, paiono essere non adeguate e proporzionate se si tiene conto del rilevante  vulnus che, invece, arrecano all’autonomia degli Enti locali, la quale è costituzionalmente riconosciuta e pure attentamente considerata, proprio nella materia de qua, dalle Istituzioni comunitarie.
Tanto più che questa deminutio è portata con modalità all’evidenza irragionevoli, se si tiene conto che la medesima proposta “riabilita”, pure con piena ragione, l’azienda speciale tra le forme di gestione; ossia reintroduce un’ipotesi che può ascriversi pianamente tra gli esempi di in house providing.
Va poi soggiunto che lo scarso utilizzo della formula organizzatoria (che sarebbe indotto ed auspicato da questa restrittiva disciplina) contribuirebbe ad impoverire ancor di più il già esiguo novero di formule gestionali (terzo scelto con gara, società mista, economia), le quali non sarebbero in grado di offrire un ventaglio di moduli organizzativi adeguato al panorama amplissimo e variegato che si intenderebbe pure regolare (tutti i servizi pubblici locali, anche quelli già disciplinati dalle leggi settore).
Se queste considerazioni insinuano qualche dubbio in punto di logicità dell’impianto di fondo del provvedimento, alcune considerazioni sulla realtà operativa sulla quale le norme dovrebbero incidere, ne mettono in dubbio pure l’utilità, almeno nel breve periodo.
Se si considera, da una parte, l’attuale ampia diffusione della formula societaria presso gli Enti locali, e, dall’altra la circostanza che la concretizzazione della natura eccezionale della formula dipende da uno scrutinio sui presupposti, è molto elevato il rischio che, in difetto di un esercito di controllori e di plurime autorità di settore, la rigorosa previsione potrà subire un’interpretazione blanda e accondiscendente; senza poi contare che molti Enti potrebbero essere indotti ad eludere la disciplina ricorrendo alla ”fuga” che passa attraverso la trasformazioni in aziende speciali.
Non sarebbe peregrino ritenere, quindi, che il quadro normativo proposto, nel mentre potrà produrre rilevanti danni a patrimoni (pubblici) esistenti, non offre certezze sul conseguimento dei risultati auspicati, i quali, si badi, nella più rosee delle ipotesi non vanno al di là della privatizzazione del settore, mercé l’implementazione dei meccanismi di concorrenza “per” il mercato (ossia consentiranno di arrivare all’affidamento ad un monopolista, forse privato, a tempo determinato, in luogo dell’affidamento ad un monopolista in mano pubblica).
Già queste considerazioni potrebbero essere sufficienti per considerare più serio e proficuo volgere i pur notevoli sforzi verso altra direzione: anziché tentare di bandire la formula organizzatoria dell’affidamento a società in house che, purtuttavia, integra una seria risposta alla incoercibile pulsione degli Enti verso l’autoproduzione, forse sarebbe opportuno rivolgere misurate riflessioni finalizzate ad “addomesticare” il predetto schema gestionale al fine di fruire di tutte le potenzialità del medesimo; ciò con l’adozione di una disciplina speciale che contribuisca ad adeguarlo alle legittime aspirazioni degli Enti locali, in un quadro di riferimento normativo certo che escluda o, quantomeno, confini le ipotesi di abuso.
Tanto per fare un esempio, non apparirebbe di certo inopportuno se, sin da subito, si procedesse con un intervento normativo, precluso ratione materiae alle Regioni, in punto di responsabilità degli amministratori delle società (oggi confusamente sottoposti sia alla responsabilità amministrativa sia a quella che deriva dall’applicazione delle norme del codice civile), o sulle relazioni – se ve ne devono essere - tra controllo analogo e potere di direzione  e coordinamento [15]; detti aspetti sono tutt’altro che marginali ed hanno “costi aziendali” rilevanti; purtuttavia, allo stato, sono abbandonati alla interpretazione e, quindi agli orientamenti giurisprudenziali pretorii.
 
 
 
5.1. Con la prima ipotesi che dovrebbe integrare la via maestra (affidamento con gara a società di capitali), la proposta ribadisce la previsione già presente nel vigente art. 113 del TU degli Enti locali, in base alla quale i soggetti affidatari, devono essere costituiti nella forma della società di capitali; questa previsione, prestandosi ad essere intesa anche come limite anche alla mera partecipazione alla gara, comporta una drastica riduzione dei competitors.
La prescrizione, che a parere di chi scrive non è mai sembrata reggere uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale per contrasto con gli art. 3, 41 e 97 Cost, di certo non appare compatibile con i principi del diritto comunitario e pure con la disciplina degli appalti pubblici di servizi (da qui l’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, I comma). 
Difatti, quale che possa essere la ragione (di ordine tecnico) che induce a subordinare la partecipazione ad una gara alla sussistenza di una specifica forma giuridica dell’impresa - ma chi scrive stenta a trovarne una, all’apparenza, sostenibile – la previsione non appare compatibile con i principi che affermano la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione dei servizi.
Su questa evidente distonia, pochi giorni or sono, è intervenuta la Corte di Lussemburgo (sez. IV) con la sentenza 18 dicembre 2007 n. C-357/06 che ha statuito che l’art. 26 della dir. 92/50 e s.m. “osta a disposizioni nazionali come quelle in esame nella causa principale che impediscono a candidati od offerenti autorizzati, in base alla normativa dello Stato membro interessato, ad erogare il servizio....,di presentare offerte nell’ambito di una procedura di aggiudicazione .... soltanto per il fatto che tali candidati o offerenti non hanno la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, ossia quelle delle società di capitali”.
E se è pur vero che la pronunzia si è fondata, ratione temporis (della fattispecie esaminata), sull’art. 26 Dir. CE 92/50 e non sull’art. 4 della Dir. 2004/18, a non dissimili conclusioni la Corte potrebbe pervenire qualora fosse costretta ad esaminare nuovamente una questione concernente analoga disciplina nazionale ed usando come parametro la più recente direttiva, stante l’incontestabile identità dei principi affermati in entrambe le direttive citate.
 
5.2. La lettera b) del comma I, annovera, fra le forme di gestione “ordinarie”, l’affidamento diretto del servizio pubblico a società miste partecipate da socio privato scelto con gara, ossia ad una forma già prevista dall’art. 113 del T.U n. 267/2000.  Rispetto al testo elaborato al Senato (e anche rispetto alla disciplina vigente), la proposta non considera più la formula come un’ipotesi eccezionale – intesa nei sensi di cui sopra, ossia condizionata al ricorrere di particolari presupposti e praticabile previo assolvimento di specifici obblighi motivazionali.
Orbene, anche questa previsione induce qualche perplessità. E non in punto di compatibilità comunitaria[16] - essendo la società mista un sicuro esempio di partenariato pubblico-privato – ma a cagione delle modalità un po’ spicce con le quali il testo la propone,  sebbene in concomitanza della prospettazione dei rilevanti dubbi da parte della Sezione V del Consiglio di Stato, illustrati con la meditata ordinanza di deferimento alla Adunanza Plenaria dd. 23 ottobre 2007, n. 5587; dubbi che hanno indotto la Sezione anche a suggerire la devoluzione alla Corte di Giustizia di specifica questione in punto di ammissibilità della forma di gestione, nei sensi già previsti dalla disciplina vigente.
Il testo proposto non risolve detti dubbi, anzi, li accentua poiché trascura di sottolineare, magari con la fissazione chiara degli specifici presupposti che possono legittimarne il ricorso, la peculiarità della formula di affidamento in discorso.
Più chiaramente anche se in estrema sintesi, si può rilevare quanto segue.
Come si sa, sia gli orientamenti giurisprudenziali, sia le varie posizioni dottrinarie concordano sul punto che la società mista non è assimilabile ad un soggetto “in house” (diverse sono solo le conclusioni che vengono desunte da questa pacifica e comune constatazione). Così, di conseguenza, le varie tesi concordano sulla impossibilità di legittimare l’affidamento del servizio alla suddetta società riconducendola al predetto modello organizzativo (in house).
Difatti, come acutamente osservato sin dai primi commenti dalla più attenta dottrina[17], l’ipotesi organizzativa in parola si fonda su di uno schema negoziale complesso che consente alla P.A. di avvalersi di un operatore economico, attraverso un contratto associativo, il quale, a sua volta, assolve, essenzialmente, agli scopi di un contratto a prestazioni corrispettive (appalto, concessione  o sub-concessione).
Per tale ragione, anche in osservanza di quanto precisato dalla Commissione [18], da un lato, la scelta del socio deve essere effettuata tramite un esperimento concorrenziale che deve consentire di individuare il migliore prestatore per quell’apporto operativo (ossia la migliore offerta) e, dall’altro, il contratto associativo deve essere calibrato esclusivamente sui contenuti di gara, oggetto di pubblicazione.
Ma se la formula organizzatoria più articolata, che comporta la sottoscrizione di un contratto associativo, assolve alla funzione di un contratto a prestazioni corrispettive, è lecito dubitare che detta formula gestionale possa essere considerata “ordinaria” nei sensi sopra intesi, ossia come una formula meramente alternativa a quella dell’affidamento del servizio con gara.
E questo non per ragioni che si fondano sugli esiti della elaborazione della formula di partenariato da parte delle Istituzioni comunitarie, per le quali, in via di principio, non vi può essere preferenza (e differenza) tra il partenariato contrattuale e quello istituzionale (salvo applicare al secondo le regole del primo).
Ma per ragioni che traggono linfa dai principi organizzativi (anche costituzionali) che governano gli Enti pubblici. Questi ultimi, infatti, seppur dotati di piena capacità di diritto privato (rectius: piena legittimazione negoziale), sono tenuti ad optare per scelte adeguate e a dar conto della ragioni della scelta disposta.
Ora non vi è chi non veda che le due soluzioni (scelta del terzo con gara e società mista con il terzo scelto con gara), seppur possono consentire il conseguimento dei medesimi scopi, non sono identiche e che la seconda è molto più complessa, costosa e gravida di conseguenze e di rischi rispetto alla prima.
Di talché l’affidamento alla società mista può essere scelto solo in presenza delle condizioni che consigliano anzi impongono la forma di partenariato stabile (società) e queste devono essere individuate, apprezzate e chiaramente espresse dagli atti dell’Ente locale.
Nulla di tutto questo sembra essere stato considerato e prescritto nel testo in commento, il quale, invece,  presenta la soluzione come meramente alternativa alla prima, contribuendo così ad una errata rappresentazione della natura della forma gestoria.
Al contrario, il testo si preoccupa solo di fissare la quota minima di partecipazione del privato al 30% e di prescrivere alcune precauzioni sui contenuti della gara, sul recesso e sulla liquidazione del socio, alla scadenza del tempo originariamente fissato.
Con il che trascura: a) di precisare che si tratta di una società di capitali; b) di precisare che l’oggetto della società deve essere esclusivo; c) di dare un serio contenuto alla quota del 30% che viene fissata in modo astratto (anche il 30% di diecimila euro?). Senza poi contare che se questa percentuale può determinare l’estensione al socio privato di responsabilità e di poteri sociali significativi, di certo, come già rilevato, non contribuisce a sistemare coerentemente la formula gestoria all’interno del quadro declinato.
 
5.3. Per quanto riguarda l’ipotesi “eccezionale” e “derogatoria” dell’affidamento a mezzo di società interamente pubblica ed “in house”, le considerazioni principali sono state già in precedenza illustrate. Qui può solo aggiungersi qualche osservazione sulla intrinseca genericità dei numerosi presupposti elencati, la quale stride con le intenzioni, sin troppo palesi, di rendere difficile il ricorso a tale forma gestionale.
Chi scrive ritiene che le uniche previsioni che potrebbero essere idonee a scrutinare, quantomeno ex post, la genuinità delle iniziative, possano essere integrate da un combinato normativo mirante, da una parte, a garantire gli standards di servizio, dall’altra ad imporre il divieto di trasferimenti finanziari, sotto qualsiasi forma, dall’Ente alla società volti a compensare gli obblighi di servizio pubblico in misura maggiore di quella che sarebbe idonea a compensare un’impresa gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata degli strumenti finanziari per erogare il sevizio [19].
Ciò mentre la farraginosità dei presupposti e l’implicita prospettazione di controlli (da parte di autorità di settore, in parte, inesistenti), previste nel testo dell’emendamento, sembrano trascurare l’enorme varietà del fenomeno, per tipologia e per dimensioni, dei servizi erogati e delle gestioni societarie relative.
 
5.4. Con il comma 3, l’emendamento, confermando quanto già emerso nei lavori del Senato sul  testo del d.d.l. originario[20], tenta di far emenda del grave errore commesso qualche anno or sono, quando si era ritenuto di dover depennare l’azienda speciale dall’elenco delle forme di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica.
Forse per una malintesa considerazione delle esigenze di liberalizzazione e degli strumenti per garantirne l’avvio, si era creduto di poter e dover accantonare lo strumento e di confinarne il ricorso solo per la gestione dei “servizi privi di rilevanza economica”. Ciò mentre tale scelta doveva apparire non immune da illogicità se si tiene conto che, allora come oggi, un’organizzazione di tipo aziendale, di norma, non è adeguata  per erogare servizi privi di rilevanza economica[21] e soprattutto se si tiene conto che, al tempo, quando era già emersa la difficoltà di individuare modelli gestori riconducibili pianamente alla forma organizzatoria “in house”, l’azienda speciale avrebbe potuto svolgere, nella prassi applicativa, un ruolo essenziale. Essa infatti rappresentava e rappresenta un’articolazione organizzativa dell’Ente locale che possiede i caratteri del soggetto “in house” (“controllo analogo” e natura di “soggetto dedicato”).
Come detto, il recupero ha destato qualche perplessità; è stato rilevato che la previsione potrebbe procurare agli Enti una comoda “via di fuga” per sottrarsi alle regole che individuano la via maestra nel ricorso alla gara[22], e, quindi, potrebbe contribuire a mantenere le gestioni pubbliche e a frammentare il mercato. Ed invero l’emendamento sembra aver reintrodotto la predetta formula gestionale come forme affatto condizionata e quindi agevolmente fruibili dagli Enti.
Senonché, la disposizione – almeno per quanto concerne le aziende - in realtà va letta insieme all’ulteriore norma contenuta nel comma 8, con la quale si dispone che alle aziende si applichino le regole dell’ente di riferimento, almeno per quanto concerne la contabilità e i rapporti di impiego.
Detta singolare, e per certi versi inattesa, previsione, lungi dall’integrare un anacronistico ritorno ad un passato (pure assai remoto), appare finalizzata ad assimilare, per quanto possibile, l’azienda all’Ente pubblico (territoriale) di riferimento e, per certi versi, realizzare quella equivalenza di regole e di modelli che contribuisce a contrassegnare - e a giustificare - una forma di gestione diretta (o quasi diretta).
Ed è proprio questa previsione - che ben si concilia con la (ri)collocazione della formula gestionale e anche con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in punto di responsabilità amministrativa e contabile - che potrà contribuire a saggiare la genuinità delle intenzioni degli Enti e ad evitare che l’azienda possa essere intesa - e pure fruita - da questi come la comoda “via di fuga” paventata.
Al termine di queste considerazioni si ha l’impressione di non essere arrivati all’ultimo atto di un processo maturo per produrre principi organizzativi adeguati alla realtà che si pretende regolare ed idonei ad essere un faro di orientamento (anche per i legislatori regionali) per un periodo di tempo congruo.
A ben vedere, se si considera che parte delle disposizioni si allinea a principi che sono già “diritto vivente”, il testo esaminato si presenta come un ennesimo intervento di aggiustamento che pure desta qualche seria perplessità, nonostante sia accompagnato, va detto, dall’intenzione, meritevole, di innestare, nei settori, elementi di concorrenzialità e misure che contribuiscono a ridurre e/o a porre sotto controllo la spesa degli Enti locali.
 
 
 
 

 

 
[2] E’ la modesta e, al più, meramente evocativa definizione offerta dal Libro bianco sui servizi di interesse generale della Commissione, 12 maggio 2004, n. 374.
[3] S. 1 febbraio 2006, n. 29
[4] S. 27 luglio 2004 n. 272
[5] Peraltro per un recente richiamo alla “materia” si veda la S 23 novembre 2007 n. 401 nella quale la Corte, indubbiamente, ha presupposto un’interpretazione assai estesa dell’ambito competenziale dello Stato.
[6] S. 27 luglio 2004 n. 272
[7] Il riferimento è alla procedura di infrazione n. 1999/2184 e pure reiterata con nota dd. 26 giugno 2002.
[8] Esaurito l’esame in Commissione referente il 30 maggio 2007 e stato nuovamente assegnato dall’Assemblea in Commissione in data 11 dicembre 2007. 
[9] L’emendamento è stato presentato dal Governo, dopo aver tentato di introdurre le medesime disposizioni, alla Camera, nel corpo della Legge  finanziaria per il 2008, con un emendamento recante l’art. 101.
[10] Sia consentito fare rinvio alle considerazioni espresse in Florenzano D., Il riordino dei servizi pubblici locali nel disegno di legge delega S. 772. Tra liberalizzazioni annunciate e mantenimento dello status quo, .in Osservatorio degli appalti pubblici, www.jus.unitn.it/appalti/home.html  
[11] Sulla tipizzazione delle forme di gestione si vedano le ampie riflessioni di Piperata G. in Tipicità ed autonomia nei servizi pubblici locali, Milano, 2005 e in particolare pp. 297 e ss.
[12] Sia la giurisprudenza comunitaria sia quella interna offrono un quadro alquanto definito, a dispetto di quanto venga sovente rilevato. Si segnalano tra le più recenti pronunzie del Giudice comunitario: Sez. II 19 aprile 2007, n. C-295/05; Sez. I 18 gennaio 2007, n. C- 220/05. Ed anche l’opera di sistemazione da parte della dottrina nazionale è giunta a risultati più che soddisfacenti o quantomeno sufficienti per avere una esatta collocazione del modulo organizzativo che consente di non sottoporre la relazione economica sottesa al regime dei contratti comunitari. Si vedano tra i tanti: Casalini D., L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli 2003; Greco G., Gli affidamenti in house di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara in Riv It. Dir. Pubbl. comun. 2001, 1461 e ss.; Alberti C., Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione, in Riv It. Dir. Pubbl. comun.2001, 495 e ss.; Cavallo Perin R., Casalini D., L’in house providing: un’impresa dimezzata, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006, 51 e ss.; Tessarolo C. La gestione in house dei servizi pubblici, in questa Rivista dd 24 febbraio 2005;  Scotti E., Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e partenariato pubblico privato, in Dir. amm., 2005, 915 e ss.; Ferrari G.F., In house providing: le sentenze della Corte di Giustizia 6 aprile 2006 e 11 maggio 2006, in www.giustamm.it, 2006; Galesi M., In house providing: verso una concreta definizione del controllo analogo?, in Urb. e app., 2004, fasc. 8, 931 ss.; Iaione C., Gli equilibri instabili dell’in house providing fra principio di auto-organizzazione e tutela della concorrenza. Evoluzione o involuzione della giurisprudenza comunitaria?, in Giust. civ., 2006, 13 ss.  
[13] Al quale la Relazione accompagnatoria al d.d.l. AS 772 omette ogni riferimento, dando spazio al libro verde del 2003.
[14] Sulla sostanziale mera alternatività tra affidamento a terzi ed “in house providing” si veda Cons. Stato, Sez. V, 23 ottobre 2007 n. 5587.
[15] Sul punto si leggano le recenti e chiare osservazioni di Montalenti P., Direzione e coordinamento nei gruppi societari:principi e problemi, in Riv. Delle Società, 2007 p. 317 e ss.. Per una trattazione sistematica sull’argomento si veda, per tutti, Galgano F., Direzione e coordinamento di società, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna 2005. 
[16] Nei sensi illustrati dalla nota sentenza del C.G.A.Reg.Sic. 27 ottobre 2006, n. 589, e più di recente dall’adesiva TAR Piemonte, sez. II, 4 giugno 2007, n. 2539.
[17] Caia G., Autonomia territoriale e concorrenza nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in www.giustizia-amministrativa.it 
[18] Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al dritto comunitario degli appalti pubblici delle concessioni, 30 aprile 2004.
[19] Confr. Risoluzione del Parlamento Europeo citata alla nota 1.
[20] Si vedano le considerazioni rese a prima lettura da Nico M., In house providing, l’azienda speciale alla riscossa, 13 settembre 2007, in questa Rivista. 
[21] Basti por mente ai servizi sociali che, connotati dall’ispirazione ai principi di personalismo comunitario e di solidarismo, sono erogati da forme organizzative alternative al modello imprenditoriale ed anzi la natura sociale del servizio trae, sovente,  indizio proprio dagli elementi organizzativi e funzionali della struttura preposta ala erogazione. Si veda in materia l’ordinata e recente ricostruzione di  Cameli R., “La categoria giuridica dei servizi sociali tra ordinamento nazionale e ordinamento europeo”, in Riv. Dir. Amm. 2006, 903 e ss., in particolare, 914 e ss.
[22] Spadoni B. L’evoluzione istituzionale dei servizi pubblici locali tra innovazione e arretramenti, 11 dicembre 2007, in questa rivista, p. 4.


[1] Si veda, da ultimo, la Risoluzione 27 settembre n. 2006/2101 (INI), con la quale il Parlamento Europeo ha chiesto alla Commissione di chiarire la distinzione tra SIEG e SIG.
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a cura di prof. Gian Antonio Benacchio e dott. Michele Cozzio