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LE PROBLEMATICHE OPERATIVE DELL'IN-HOUSE 

di Roberto Mangani

 SOMMARIO

1. Stato dell'arte
2. Rapporti tra ente e affidataria
3. Rapporti tra affidataria e terzi
4. L'in-house e le regole della concorrenza
5. Controllo analogo
6. Conclusioni

1. Stato dell'arte

Il fenomeno dell’in house providing, e in particolare la possibilità di configurarlo legittimamente nel caso in cui il soggetto affidatario della prestazione sia costituito in forma societaria, continua ad essere al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale, nonché oggetto di costante attenzione degli operatori.

Si tratta di un tema “trasversale”, in cui molteplici e interessanti problematiche giuridiche si intrecciano con questioni che attengano alla politica industriale e, più in generale, agli assetti sociali, politici ed economici del “sistema paese”.

Dal punto di vista dell’inquadramento giuridico, l’interesse (e la complessità) del tema deriva dal fatto che vengono contestualmente in considerazione profili di diritto comunitario, diritto amministrativo e diritto societario. E tali profili si intrecciano e si sovrappongono in un quadro che spesso, proprio per questa sua caratteristica, stenta a trovare una sua coerenza complessiva.

Dal punto di vista politico – istituzionale, basta considerare che sullo sfondo si intravede il tema “nobile” dello spazio che deve essere occupato dal potere pubblico nell’assetto economico complessivo, con la tradizionale contrapposizione tra una visione che tende a privilegiare un intervento pubblico di tipo regolatore e quella che invece, a determinate condizioni, considera legittimo e perfino opportuno che l’organizzazione pubblica si strutturi anche in termini di “autoproduzione” di determinati servizi e prestazioni. Ma si intravede anche l’aspetto meno “nobile” di resistenze al cambiamento dettate dalla volontà di mantenere – specie a livello di autonomie locali - situazioni monopolistiche che hanno il solo scopo di garantire spazi di mera occupazione del potere. [1]

Seppure queste considerazioni fuoriescono da un’analisi strettamente giuridica del fenomeno dell’in house, ignorare totalmente tale contesto di riferimento rischia di lasciare incompiuta la suddetta analisi. Anzi, come emergerà meglio dallo sviluppo del ragionamento, ad avviso di chi scrive alcune questioni giuridiche possono trovare una corretta impostazione solo se inquadrate alla luce delle scelte politico – amministrative che vi si accompagnano.

Come detto all’inizio, il tema dell’in house ha assunto negli ultimi tempi un rilievo assolutamente centrale in relazione alle questioni inerenti la possibilità di darne concreta attuazione attraverso il ricorso al modello societario.

Questa particolare prospettazione che ha assunto il tema non deve meravigliare. Nel momento in cui la giurisprudenza comunitaria ha a suo tempo aperto una breccia in merito alla possibilità di ammettere un affidamento diretto di una prestazione da parte di un ente pubblico a favore di un soggetto che, pur essendo da esso formalmente distinto, poteva in qualche modo ricondursi alla sua organizzazione complessiva, si sono oggettivamente precostituite le condizioni per un successivo sviluppo del fenomeno.

E, in questo percorso di progressiva espansione, una delle evoluzioni che poteva apparire più naturale era proprio quella relativa all’affidamento in house a favore di società.

Ne sono derivati da un lato, il diffondersi di una prassi tendente a fare largo ricorso all’affidamento in house a favore di soggetti societari; dall’altro, il tentativo di dare anche una copertura legislativa a questa prassi, almeno per ciò che concerne il settore dei servizi pubblici locali [2].

Come spesso avviene quando le prassi si istituzionalizzano, l’uso dello strumento ha dato luogo anche a distorsioni ed abusi. E, di fronte a questo uso disinvolto, è scattata una reazione di rigetto che, paradossalmente, ha trovato il principale protagonista proprio in quello stesso giudice comunitario alla cui elaborazione si deve la creazione “pretoria” dell’istituto.

Si è passati così da una posizione di totale apertura a una di sostanziale chiusura, con una serie di decisioni in cui spesso la correttezza della ricostruzione giuridica è sembrata cedere il passo a considerazioni di opportunità politica.

In questo contesto generale, il presente intervento è incentrato sull’analisi delle problematiche più propriamente operative dell’in house. E’ tuttavia evidente che gli aspetti operativi non possono prescindere dal quadro normativo e giurisprudenziale esistente, che forma oggetto specifico degli altri interventi di questa giornata di studio.

Sia pure cercando di evitare sovrapposizioni e ripetizioni con il contenuto delle altre relazioni, è giocoforza riprendere alcuni principi e concetti generali che emergono specie dalla più recente elaborazione giurisprudenziale.

Tenendo conto di questi principi e concetti, gli aspetti operativi verranno analizzati sotto un duplice profilo. Il primo è un profilo che potremmo definire “interno”, in quanto attinente ai rapporti tra ente pubblico affidante e società affidataria; il secondo è un profilo “esterno”, relativo ai rapporti tra la società e i soggetti terzi.

Si tratta peraltro di profili strettamente interconnessi e che tuttavia, per una maggiore chiarezza espositiva, possono essere analizzati distintamente.

 

2. Rapporti tra ente e affidataria

Sotto il profilo interno, la questione fondamentale che viene in considerazione riguarda la stessa configurabilità dell’in house a favore di società, ovvero l’individuazione delle condizioni che, sulla base dell’attuale stato della giurisprudenza e della normativa comunitaria e nazionale, devono ricorrere affinché si possa legittimamente procedere all’affidamento di prestazioni da parte di un ente pubblico a favore di un soggetto costituito in forma societaria.

Ma tale questione non esaurisce l’analisi del profilo interno. Infatti, in stretta correlazione e come diretta conseguenza della posizione che si viene ad assumere su questo tema di fondo, si delinea la diversa problematica relativa all’individuazione delle modalità attraverso cui si devono concretamente atteggiare i rapporti tra l’ente pubblico affidante (ma anche socio) e la società affidataria. E la definizione di tali modalità – come vedremo – dà luogo a una serie di problemi operativi di non facile soluzione.

Posta in questi termini, la questione può apparire oscura. Per cercare di fare luce, occorre tentare di dipanare una matassa che, in prima battuta, si presenta piuttosto intricata. E, per farlo, conviene partire da un dato che può ormai considerarsi assodato.

Tale dato consiste nella constatazione che la possibilità di configurare gli affidamenti in house a favore di soggetti costituiti in forma societaria ha trovato negli ultimi tempi molti ostacoli in primo luogo in sede di giurisprudenza comunitaria e successivamente anche da parte del giudice nazionale.

E’ risaputo che, a partire dalla celeberrima sentenza Tekal del 9 settembre 1999, le condizioni individuate per ritenere legittimo l’affidamento in house sono di due tipi : a) una condizione di tipo “funzionale”, rappresentata dalla necessità che l’ente pubblico affidante eserciti sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello che esercita sui propri servizi; b) una condizione di tipo “operativo”, consistente nello svolgimento della parte principale dell’attività del soggetto affidatario a favore dell’ente affidante.

Con riferimento all’ipotesi in cui il soggetto affidatario agisca in forma societaria, il dibattito si è concentro sulla prima delle due condizioni indicate. Il punto centrale di tale dibattito si può riassumere in una domanda: é possibile configurare la sussistenza di un “controllo analogo” nei confronti di un soggetto come quello societario, caratterizzato da una connaturale sfera di autonomia gestionale ?

Contro questa possibilità é stata proposta una lettura secondo cui la nozione di controllo analogo dovrebbe implicare l’esistenza, nei rapporti tra ente controllante/affidante e soggetto controllato, di una situazione di stretta dipendenza gerarchica e funzionale, del tutto simile a quella che sussiste nei confronti delle articolazioni organizzative interne all’ente stesso. [3]

E’ evidente che qualora si ritenesse che il controllo analogo debba esprimersi attraverso una relazione di questo tipo, sarebbe esclusa alla radice la possibilità di configurarlo nei confronti di una realtà societaria. E ciò perchè il modello societario, per sua intrinseca natura, trova la sua disciplina in un’insieme di regole che, per quanto possano essere “piegate” alle esigenze del socio pubblico, non potranno mai limitare l’autonomia decisionale e gestionale della società fino al punto di ricreare una relazione così stringente con l’ente pubblico di riferimento.

Ed in effetti, le pronunce del giudice comunitario che si sono occupate del tema hanno assunto una posizione via via più restrittiva proprio perché si sono focalizzate su questo profilo. E incentrando l’analisi su questo aspetto hanno finito per imboccare una strada in qualche modo obbligata, che non poteva che portare a bocciare ogni possibilità di configurare l’in house a favore di soggetti costituiti in forma societaria.

La prima espressione di questo processo di progressiva involuzione verso la formula dell’in house a favore di società è costituita dalla sentenza Stadt Hall dell’11 gennaio 2005 che ha ritenuto illegittimo l’affidamento a favore di una società al cui capitale partecipi, sia pure in posizione di minoranza, un socio privato. In questo caso, la Corte di giustizia ha affermato che la presenza, accanto al socio pubblico di maggioranza, di un partner privato rende impossibile configurare da parte del primo il controllo analogo sulla società.

Le ragioni sostanziali addotte a sostegno di questa conclusione sono di due tipi. La prima è che consentendo l’affidamento diretto (in house) a favore della società mista si finirebbe per attribuire al socio privato di minoranza una posizione di vantaggio rispetto agli altri operatori del settore, senza che ciò abbia trovato giustificazione nello svolgimento di un precedente confronto concorrenziale. [4]

Questa prima obiezione non sembra peraltro rivestire un carattere insormontabile. Se infatti si imponesse la scelta del partner privato tramite una procedura ad evidenza pubblica, si potrebbe quanto meno discutere sulla possibilità di superare la censura avanzata dalla Corte di Giustizia sotto questo profilo.

Ma è la seconda ragione addotta dal giudice comunitario che sembra delineare una bocciatura senza appello dell’in house a favore di una società mista. Secondo la Corte di Giustizia, infatti, la presenza del partner privato nella compagine sociale introdurrebbe un interesse di tipo privatistico inconciliabile con il pieno dispiegamento del potere di intervento e di direzione del socio pubblico necessario affinché si possa configurare il controllo analogo.[5]

In sostanza, la semplice presenza del socio privato sarebbe da considerare “inquinante” [6], proprio perché portatrice di interessi naturalmente ed inevitabilmente confliggenti con quelli del socio pubblico. E questa oggettiva confliggenza renderebbe di per sé impossibile delineare quella situazione di sostanziale compenetrazione tra il socio ente pubblico e la società che sarebbe necessaria per legittimare l’affidamento in house.

Si deve peraltro rilevare che, quasi contestualmente a questa decisione del giudice comunitario, il giudice nazionale si era espresso in termini diametralmente opposti, ritenendo del tutto legittimo l’affidamento in house a favore di una società a partecipazione mista pubblico - privata. [7]

Al di là di questo contrasto – e senza soffermarsi su una puntuale analisi critica di alcuni passaggi contenuti nella decisione della Corte UE - non si può fare a meno di osservare che una soluzione così drastica sembra contraddire quella posizione di apertura che in sede comunitaria è stata più volte affermata verso le forme di partenariato pubblico - privato.

Ritenere che la presenza del soggetto privato sia ontologicamente incompatibile con il pieno e soddisfacente perseguimento dell’interesse pubblico significa, nei fatti, bocciare tutte quelle formule organizzative in cui il potere pubblico e l’imprenditore privato, invece di porsi in una logica di pura (e tradizionale) contrapposizione, tendono a cooperare in una diversa logica che mira a comporre i relativi interessi per il perseguimento di un fine comune.

Come se ciò non fosse sufficiente, a questo primo orientamento restrittivo relativo alle società miste ha fatto successivamente seguito un’ulteriore chiusura, che ha riguardato l’in house a favore di società a totale partecipazione pubblica. La sentenza Parking Brixen del 13 ottobre 2005 ha infatti ritenuto illegittimo l’affidamento operato dall’ente pubblico/ socio a favore di una società di cui il primo detenga l’intero capitale.

Il giudice comunitario ha in questa occasione indicato una serie di ragioni che, a suo avviso, rendevano illegittimo l’affidamento in house [8] . E nell’elencare tale ragioni, è andato a toccare inevitabilmente il cuore del problema.

Nella citata pronuncia si individuano infatti, tra gli ostacoli alla possibilità di consentire l’affidamento in house, l’esistenza di ampi poteri gestionali esercitabili in via autonoma dal Consiglio di amministrazione della società. Ma così facendo si mette “sotto accusa”, ritenendolo un elemento preclusivo alla possibilità dell’affidamento in house, uno dei tratti caratterizzanti e tipici del modello societario, e cioè l’esistenza di un organo di gestione chiamato ad operare in autonomia per il perseguimento dell’oggetto sociale.

La consapevolezza che l’iter argomentativo sviluppato porta inevitabilmente a ritenere l’affidamento in house ontologicamente incompatibile con il modello societario emerge peraltro anche in un passaggio della richiamata pronuncia, laddove viene affermato che tra le ragioni che rendono impraticabile l’esercizio da parte dell’ente pubblico del controllo analogo vi è proprio “la trasformazione (del soggetto affidatario) da azienda speciale in una società per azioni e la natura di questo tipo di società”.

E’ proprio alla luce delle argomentazioni sviluppate nella predetta sentenza che è sembrato inevitabile parlare di un vero e proprio “de profundis” per l’in house a favore di soggetti costituiti in forma societaria [9].

Peraltro, questa posizione di netta chiusura ha trovato successive conferme non solo da parte dello stesso giudice comunitario [10], ma anche in alcune importanti pronunce della giurisprudenza nazionale. Significativo sul punto è il cambiamento di posizione operato dal Consiglio di Stato.

In un primo tempo, infatti, il massimo organo di giustizia amministrativa si era mostrato possibilista in merito alla legittimità dell’affidamento in house a favore di una società totalmente partecipata dall’ente pubblico affidante. Si era cioè ritenuto che, nel momento in cui nella società non vi fosse la presenza di un partner privato, potesse riespandersi quella piena dominanza dell’ente pubblico necessaria per configurare la sussistenza del controllo analogo e per legittimare, di conseguenza, l’affidamento in house [11].

Ma a seguito della sentenza Parking Brixen anche il Consiglio di Stato ha abbandonato questa iniziale posizione aperturista e si è adeguato alle conclusioni del giudice comunitario [12].

Il risultato ultimo è che il panorama giurisprudenziale allo stato assolutamente dominante porta a concludere nel senso dell’illegittimità di qualunque affidamento in house a favore di società, ancorché a totale partecipazione pubblica. Detto in altri termini, la semplice posizione di socio, anche se totalitario, non consentirebbe all’ente pubblico di esercitare sulla società il c.d controllo analogo e, quindi, di configurare quella sostanziale identificazione tra affidante e affidatario che è l’unica condizione che consente di far luogo all’affidamento senza il previo svolgimento di una ordinaria procedura di gara.

 

3. Rapporti tra affidataria e terzi

E’ in questo contesto, non certo favorevole al fenomeno dell’in house a favore di società, che si inserisce il decreto Bersani. L’articolo 13 di tale decreto sembra finalizzato a un duplice obiettivo. Da un lato, evitare che il fenomeno dia luogo a palesi effetti distorsivi della concorrenza, limitando una prassi che negli ultimi anni ha portato spesso ad alterazioni del mercato e ad una mancata apertura di determinati settori al confronto competitivo. Dall’altro lato, il decreto sembra volersi fare carico anche della necessità di non precludere in assoluto l’utilizzo da parte degli enti pubblici di questo modello organizzativo che, nel ricorso di determinate condizioni, può comunque costituire una risposta valida in termini di maggiore efficienza gestionale per lo svolgimento di determinati servizi e prestazioni che l’ente deve garantire nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali.

In questo delicato gioco di equilibri, il decreto Bersani si muove in una logica che va nella direzione di un totale cambiamento di prospettiva rispetto ai termini in cui il dibattito si è sviluppato fino ad oggi. Così, mentre tutto il problema si è sostanzialmente concentrato, come abbiamo visto, sulla prima delle condizioni che legittimerebbero l’affidamento in house, e cioè la sussistenza del controllo analogo, l’articolo 13 focalizza tutta la sua attenzione sulla seconda condizione: lo svolgimento della parte principale dell’attività del soggetto affidatario a favore dell’ente affidante.

Sotto questo profilo, anzi, il decreto Bersani detta una disciplina ancora più rigorosa rispetto agli stessi orientamenti della giurisprudenza comunitaria. Viene infatti previsto che la società debba svolgere tutta la sua attività – e non solo la parte principale della stessa - a favore dell’ente pubblico socio.

In sostanza, tutta la filosofia della disciplina introdotta si fonda sul concetto di “esclusività”. La società deve agire in esclusiva per l’ente pubblico di riferimento, deve cioè operare solo per quest’ultimo, senza poter allargare il suo ambito di attività su mercati diversi. [13]

L’obiettivo di questa impostazione appare chiaro. Se la società opera solo per l’ente pubblico di riferimento, è più agevole ricondurre la stessa a una sorta di longa manus dell’ente medesimo. Viene cioè evidenziata la sussistenza di quella situazione di sostanziale identificazione tra ente pubblico e società per cui, pur trattandosi di soggetti formalmente e giuridicamente distinti, essi possono essere ricondotti a una matrice comune che ne esalta la sostanziale unitarietà sotto il profilo organizzativo.

Al di là del suo specifico ambito applicativo – che esclude in particolare tutto il settore dei servizi pubblici locali – è evidente che l’intento del decreto Bersani sembra quello di disegnare un nuovo modello dell’in house a favore di società [14].

Tale modello è tutto volto a esaltare la funzione “servente” della società rispetto all’ente pubblico socio. Stabilire che la società non può svolgere le sue prestazioni a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico (o dagli enti pubblici) che partecipa (o partecipano) al suo capitale significa nella sostanza configurare la stessa come una struttura organizzativa che, per quanto dotata di una propria autonomia giuridica e di regole di funzionamento proprie, è posta all’esclusivo servizio dell’ ente pubblico socio.

Da un punto di vista di ricostruzione del quadro complessivo del fenomeno, questo modello può risultare funzionale al tentativo di giungere a una riconsiderazione della posizione tradizionalmente negativa assunta dalla giurisprudenza in merito al profilo del c.d. “controllo analogo” nei rapporti tra ente pubblico e società da questi partecipata.

In sostanza, il valore dirimente attribuito al concetto di “esclusività” potrebbe rappresentare il “cavallo di troia” attraverso cui tentare di abbattere la fortezza che nega la possibilità di configurare un controllo analogo nell’ipotesi in cui il soggetto controllato sia costituito in forma societaria.

Va peraltro tenuto presente che già in alcuni passaggi della nostra giurisprudenza amministrativa - almeno prima della recente svolta restrittiva – era stata messa in luce la necessità che, rispetto alla formula societaria, il concetto di controllo analogo fosse interpretato con quegli adattamenti necessari per renderlo coerente con le peculiarità dello strumento . [15]

La filosofia di fondo di questa posizione è evidente: non si può pensare di richiedere, nei confronti di un soggetto societario, un potere di intervento così penetrante da contrastare irrimediabilmente con i principi fondamentali che regolano il funzionamento delle società.

Se dunque si parte dall’assunto che anche il concetto di controllo analogo va adattato alle tipicità proprie del modulo societario, è proprio il riferimento alla condizione di “esclusività” dell’attività svolta che può aiutare a costruire un diverso percorso argomentativo.

E questo diverso percorso parte da un primo presupposto: se la società opera in via esclusiva per l’ente pubblico di riferimento, si elimina la possibilità che, attraverso la sua presenza su mercati diversi, si producano effetti distorsivi della concorrenza.

E’ infatti indubbio che consentire a un soggetto che gode di una mercato in qualche modo “protetto” – quale è quello conseguente all’affidamento fiduciario ricevuto dall’ente pubblico di riferimento – di concorre anche per l’affidamento di contratti di competenza di altri soggetti pubblici, significa porre questo soggetto in una posizione di oggettivo vantaggio rispetto ai concorrenti.

Ma se questa possibilità viene eliminata, proprio sancendo il principio dell’esclusività delle prestazioni nei termini sopra ricordati, ecco che, sotto il profilo della tutela della concorrenza, un primo significativo risultato viene raggiunto.

 

4. L’in-house e le regole della concorrenza

L’altro aspetto che necessariamente deve venire in considerazione in un’ottica che tende a “salvare” lo strumento dell’in house a favore di società attiene alla necessità che esso non si trasformi in un meccanismo elusivo delle regole concorrenziali.

Questo aspetto chiama in causa quello che, in apertura delle presenti note, è stato individuato come il secondo profilo sotto cui possono essere esaminate le problematiche operative dell’in house, e cioè i rapporti “esterni” tra la società e i soggetti terzi.

A questo proposito, occorre essere chiari. La società in house può provvedere alla materiale esecuzione delle prestazioni che rientrano nel suo campo di attività attraverso due modalità. La prima è tutta “interna”, nel senso che passa per la creazione di un’organizzazione strutturale della società che permette alla stessa di far fronte ai propri compiti esclusivamente con i suoi uffici e le sue articolazioni produttive.

La seconda modalità comporta invece che le prestazioni da eseguire siano affidate, in tutto o in parte, a soggetti terzi. In questa ipotesi, appare indubbio che la società, per la scelta degli appaltatori chiamati materialmente a eseguire le prestazioni di beni, servizi o lavori debba necessariamente espletare procedure ad evidenza pubblica.

Questa conclusione trova la sua ragione sotto un duplice profilo. In primo luogo, la società in parola, per le sue caratteristiche, appare catalogabile nell’ambito di quelle figure che, pur non essendo amministrazioni pubbliche nel senso tradizionale del termine, sono ormai equiparate a tutti gli effetti a queste ultime per ciò che concerne le regole da seguire nel procedere all’affidamento degli appalti.

Ci si riferisce alle categorie soggettive delle società con capitale pubblico anche non maggioritario che producono beni e servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza (articolo 32 del Codice dei Contratti pubblici); delle società per la gestione dei servizi pubblici locali (sempre articolo 32 citato); delle imprese pubbliche (articolo 207); dei soggetti titolari di diritti speciali o esclusivi (articolo 207); per finire alla controversa nozione di organismo di diritto pubblico (articolo 32).

In sostanza, le società in house sembrano potersi ricondurre, ai fini della normativa sugli appalti pubblici, a una di quelle figure soggettive con cui - al di là della difficoltà che talora sussistono nel definirne gli esatti contorni – il legislatore ha nella sostanza voluto attrarre nell’ambito della committenza pubblica tutti quei soggetti che collaborano all’assolvimento di funzioni pubblicistiche.

A questa prima considerazione ne va aggiunta una seconda. Proprio al fine di evitare ogni possibilità elusiva, si è andato nel tempo consolidando un principio generale, ormai pacificamente riconosciuto, secondo cui quando un soggetto agisce quale longa manus di un ente pubblico, deve applicare per la scelta del contraente le stesse regole che avrebbe dovuto applicare l’ente di riferimento.

E nella configurazione che, secondo la ricostruzione indicata, viene ad assumere la società in house, non è dubitabile che essa vada considerata a tutti gli effetti proprio come una longa manus dell’ente pubblico di riferimento.

 

5. Controllo analogo

Delineati i caratteri della società in house nei termini anzidetti, in un conteso cioè di sostanziale salvaguardia delle ragioni della concorrenza, si pongono le premesse per impostare in termini diversi anche la questione relativa al c.d. controllo analogo.

Se non vi sono più ragioni sostanziali per temere che lo strumento societario – e il relativo affidamento diretto operato a suo favore – si possa configurare come uno strumento elusivo delle regole concorrenziali, si riapre lo spazio per dare una lettura meno restrittiva della nozione di controllo analogo applicata al modello societario.

In questa logica, si potrebbe ritenere che la qualità di azionista unico, magari accompagnata da puntuali clausole statutarie relative al funzionamento della società o da strumenti esterni consistenti in specifiche convezioni tra ente pubblico e società [16], possa effettivamente portate a configurare la sussistenza di un controllo analogo del socio pubblico sulla società da esso totalmente partecipata. E, di conseguenza, legittimare l’affidamento in house a favore di quest’ultima.

Del resto, l’ordinamento comunitario non impone un obbligo di “esternalizzazione” a carico dei committenti pubblici, nel senso che questi non sono tenuti a provvedere all’assolvimento dei loro compiti istituzionali procedendo necessariamente all’affidamento all’esterno delle prestazioni funzionali a tale assolvimento. E’ del tutto legittimo, cioè, che possano scegliere di operare attraverso la propria organizzazione interna, senza che ciò possa essere considerata un’indebita restrizione del mercato.

Nel contempo, lo stesso ordinamento comunitario riconosce agli Stati membri un’ampia autonomia nella scelta delle modalità organizzative con cui operare. Ed allora, non sembra che la formula organizzativa societaria debba essere necessariamente vista con sfavore, se il suo utilizzo è accompagnato dalle cautele necessarie a salvaguardare i principi generali della concorrenzialità.

E’ in questo contesto che la possibilità di ammettere l’affidamento in house a favore di società potrebbe riprendere legittimo spazio almeno per l’ipotesi in cui la società sia a totale partecipazione pubblica. Mentre dubbi più consistenti rimangono rispetto alle società miste, in cui la presenza del partner privato incontra comunque quelle obiezioni di fondo già avanzate nella sentenza Stadt Hall e che appaiono difficilmente superabili anche in un’ottica di rivisitazione del quadro complessivo di riferimento.

L’ipotesi ricostruttiva sopra delineata - basata sulla valorizzazione del requisito della “esclusività” cui si accompagna una rilettura della nozione di “controllo analogo” applicata al modello societario - potrebbe dunque consentire di superare la posizione di pregiudiziale sfavore che negli ultimi tempi si è andata affermando rispetto all’in house a favore di società. Non ci si può nascondere, tuttavia, come la stessa faccia sorgere altri e rilevanti problemi, attinenti sempre al rapporto “interno” tra ente pubblico e società.

Se infatti la configurabilità del “controllo analogo” passa necessariamente per l’introduzione di clausole statutarie o addirittura di strumenti convenzionali esterni che hanno la finalità di limitare l’autonomia gestionale dell’organo di amministrazione, si pone la necessità di analizzare se, ed eventualmente in che termini, questo approccio provochi ricadute sul fisiologico funzionamento dell’organismo societario, fino al punto di poter stravolgere le regole fondamentali del diritto societario.

Il tema è evidentemente molto complesso, ed esige un esame approfondito dei diversi problemi, che necessita di uno sviluppo autonomo. In questa sede, non essendo possibile offrire un’analisi puntuale degli specifici problemi, ci si può limitare a indicare la questione di fondo nel cui ambito essi vanno collocati.

Tale questione è collegata al fatto che, laddove si inseriscono dei meccanismi di “tutela” dell’organo di gestione, ne esce automaticamente limitata l’autonomia decisionale degli amministratori della società. E questo può provocare un’alterazione, più o meno profonda, dei meccanismi che ordinariamente governano il funzionamento del modello societario.

Tanto per fare un esempio, fino a che punto potrebbe essere esercitata l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di fronte a una “mala gestio”, laddove questa fosse dovuta al pedissequo rispetto di direttive e istruzioni impartite dall’ente pubblico socio nell’ambito di quei meccanismi che gli consentono di esercitare il c.d. “controllo analogo” ?

Ovvero, senza arrivare a queste ipotesi estreme, si pensi a cosa potrebbe accadere in caso di un contenzioso tra l’ente pubblico socio e la società affidataria relativo a un ritenuto non corretto adempimento delle prestazioni affidate. Gli amministratori potrebbero trovarsi nella non invidiabile situazione di dover difendere le ragioni della società contro le contestazioni mosse dal proprio azionista di riferimento.

Questi problemi, solo accennati, evidenziano in realtà l’esistenza di un conflitto di interessi - che è latente ma rischia di emergere in ogni circostanza critica - in capo all’ente pubblico. Conflitto riportabile alla circostanza che quest’ultimo è contemporaneamente il “cliente” della società - delle cui prestazioni usufruisce - e il suo “proprietario”, in quanto azionista unico.

E’ evidente che questa duplice veste rischia di creare una confusione di ruoli che finisce per essere deleteria per il corretto e lineare svolgimento dei rapporti. E in questo contesto, il punto di frizione trova la sua emblematica espressione proprio nella posizione degli amministratori della società, che possono trovarsi schiacciati tra l’esigenza di assolvere correttamente la loro funzione e quella di non andare contro la volontà del proprio azionista di riferimento.

 

7. Conclusioni

La possibilità di salvaguardare - nel ricorso di determinati presupposti e fermo restando le criticità da ultimo evidenziate – il modello dell’in house a favore di società implica tuttavia l’analisi di un ulteriore profilo, non sempre valutato in tutto il suo rilievo.

La legittimità dell’affidamento in house passa infatti per la dimostrazione che il ricorso a questa modalità organizzativa per lo svolgimento di determinate prestazioni di competenza dell’ente pubblico risponde a una reale convenienza economica. Occorre ciò fugare ogni dubbio sul fatto che lo strumento societario possa essere utilizzato al solo fine di mantenere posizioni di “potere” nella gestione della cosa pubblica, senza alcun riferimento alla sua reale economicità gestionale.

In questa logica, appare necessario che l’ente pubblico possa dimostrare e adeguatamente motivare nel senso che il modulo dell’in house a favore di una società da esso partecipata rappresenti il modello gestionale più conveniente, cioè quello che offre i risultati più vantaggiosi dal punto di vista economico – imprenditoriale. Solo ricorrendo questa condizione può essere giustificata la scelta di preferirlo alle altre modalità gestionali e, in particolare, a quella che passa per un affidamento all’esterno delle prestazioni a seguito di un’ordinaria procedura di gara.

Sotto questo profilo, appare particolarmente significativa l’affermazione del principio secondo cui il rapporto tra ente pubblico affidante e società in house affidataria delle prestazioni non deve avere carattere oneroso. La mancanza di onerosità è collegata alla circostanza che nell’ambito dell’in house la società affidataria non è un terzo in senso proprio, al pari di qualunque fornitore di servizi, ma un soggetto riconducibile alla sfera organizzativa dell’ente pubblico [17].

Questo principio tende evidentemente a sottolineare che la società, per potersi legittimamente configurare come un braccio operativo dell’ente pubblico di riferimento, non deve ricevere alcun corrispettivo da cui ricavare il proprio utile industriale. La sua attività, cioè, deve essere compensata al solo fine di rimborsare i costi di gestione, che peraltro devono essere in linea con quelli di mercato. In sostanza, l’attività sociale non dovrebbe avere fini di lucro; il che, peraltro, riapre una discussione mai totalmente sopita sulla configurabilità di particolari modelli societari che si allontanano da quello tipico nella misura in cui non pongono la finalità lucrativa al centro dell’attività sociale.

Al di là dell’ammissibilità di un inquadramento concettuale di questo tipo di società che la riporterebbe nell’ambito della controversa categoria delle “società di diritto speciale”, la strada che passa per la dimostrazione della convenienza economica del modello gestionale fondato sull’in house a favore di società non è certo priva di difficoltà.

Tale strada, infatti, si trasforma in un sentiero molto stretto laddove la valutazione sulla scelta del modello gestionale operata dall’ente pubblico e sulle motivazioni che ne sono alla base viene a coinvolgere profili che si pongono ai limiti di quello che viene tradizionalmente considerato il “merito” dell’azione amministrativa, come tale insindacabile in sede di giudizio di legittimità.

In sostanza, nel momento in cui una delle condizioni per configurare il legittimo ricorso all’in house viene individuata nella dimostrazione della sua convenienza economica rispetto ad altri modelli gestionali, si finisce inevitabilmente per spingere il sindacato di legittimità sulle scelte compiute dall’ente pubblico ai confini del giudizio di merito.

E’ di tutta evidenza che, in questa prospettiva, il problema assume dei contorni ancora più complessi, che chiamano in causa il delicato rapporto tra l’attività politico – amministrativa dell’ente pubblico e il controllo sull’azione amministrativa demandato agli organi giurisdizionali. Rapporto che rischia di tradursi in un conflitto nel momento in cui venissero a sovrapporsi due sfere che dovrebbero invece rimanere totalmente autonome e distinte.

Tuttavia, un indizio in ordine al fatto che quella descritta possa essere un’opzione dotata di una propria logica si rinviene proprio nel c..d. DDL Lanzilotta sulla riforma dei servizi pubblici locali. L’articolo 2 di tale DDl prevede infatti diverse modalità di gestione del servizio pubblico, tra cui viene ricompreso, sia pure quale eccezione alla regola, l’affidamento a società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale affidante[18]. Ma ciò che rileva ai nostri fini è la previsione contenuta alla lettera d) del comma 1, laddove viene precisato che per procedere a tale forma di affidamento in house l’ente locale debba adeguatamente motivare in ordine alle ragioni che inducono a optare per questo modello gestionale in luogo di quello dell’affidamento all’esterno tramite ordinarie gare ad evidenza pubblica. E – aspetto ancora più rilevante - questa motivazione implica una valutazione ponderata basata su un’analisi di mercato da cui emerga la necessità del ricorso alla gestione in house rispetto alla dimostrata inadeguatezza dell’offerta privata [19].

Anche sulla base di questa affermazione contenuta nel DDL Lanzillotta, ci si può chiedere se l’ipotesi ricostruttiva delineata, per quanto presenti aspetti di notevole complessità, non possa rappresentare la base di un ragionamento volto a superare quella contrapposizione netta in house sì/in house no in cui fino ad oggi si è incanalato il dibattito.

Si intende dire che, sulla base delle considerazioni svolte, si potrebbe tentare di impostare i termini del problema evitando di partire dal presupposto dell’esistenza del “modello”, unico e tipico, della società in house, su cui si debba esprimere una valutazione per così dire “ideologica”.

Questa impostazione tradizionale del problema porta infatti ad abbracciare soluzioni giuridiche che rischiano di essere o troppo permissive, aprendo la strada all’elusione delle regole concorrenziali; o, viceversa, eccessivamente restrittive, con l’effetto di apparire inutilmente penalizzanti anche in quei casi in cui l’affidamento in house a favore società può rappresentare un utile ed efficace strumento gestionale a disposizione dell’ente pubblico.

Superare questa impostazione significa aderire a una visione sostanzialistica, in cui l’affidamento in house può essere considerato opportuno e legittimo tutte le volte in cui ricorrano condizioni di garanzia in relazione a tre fondamentali profili: a) i rapporti esistenti con l’ente pubblico di riferimento, configurati in termini di effettiva compenetrazione organizzativa tra ente e società; b) i rapporti con il mercato esterno, che assicurino il rispetto delle regole concorrenziali nel momento in cui la società si rivolge a soggetti terzi per acquisirne le prestazioni; c) l’esistenza di un’evidenza motivazionale che permetta all’ente pubblico di dimostrare l’economicità della scelta effettuata.

Restano naturalmente sullo sfondo le questioni collegate alla configurazione di una società che, per le sue caratteristiche strutturali, si discosta nel suo funzionamento ma prima ancora nelle sue finalità dal modello societario tipico disciplinato da codice civile. Questioni che se vanno sicuramente affrontate con il necessario rigore, non sembra debbano tuttavia rappresentare una valida ragione per negare alla radice la configurabilità stessa dell’affidamento in house a favore di soggetti societari.

 
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[1] La prova di quanto il tema sia sensibile tanto alle diverse concezioni di politica economica che agli interessi organizzati degli enti locali è offerta dalla complessa discussione che fin dall’inizio ha accompagnato il DDL n. 772 contenente la Delega al Governo per la riforma dei servizi pubblici locali (c.d. DDL Lanzillotta). Non è un caso che tale DDL rappresenti uno dei provvedimenti dove stanno emergendo, con plastica evidenza, le diverse sensibilità politiche presenti nell’attuale maggioranza di governo, che peraltro si uniscono alle forme di pressione provenienti da una larga rappresentanza degli enti locali a difesa proprio della formula dell’affidamento in house.

[2] E’ noto che il TU sulle autonomie locali, D.lgs. 267/2000, prevede all’articolo 113, tra le varie forme di gestione del servizio pubblico locale, anche quella operata tramite affidamento a società a capitale misto (lettera b) o a totale partecipazione pubblica (lettera c).

[3] Il Consiglio di Stato, già con l’Ordinanza del 22 aprile 2004, n. 2316 della Sezione V, aveva posto il dubbio se il possesso anche dell’intero capitale sociale della società affidataria da parte dell’ente pubblico affidante potesse di per sé garantire quella situazione di dipendenza organica che sembra essere richiesta affinché si possa invocare la sussistenza del “controllo analogo” nei termini indicati dalla precedente giurisprudenza comunitaria.

[4] Si legge al punto 51 della pronuncia che “l’attribuzione di un appalto pubblico a una società mista pubblico- privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttiva 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.

[5] “La partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi “ (punto 49). E ciò in quanto “qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente (dal perseguimento degli obiettivi di intesse pubblico)” (punto 50).

[6] Vedi in Giustamm.it, A. CLARIZIA, Il privato inquina: gli affidamenti in house solo a società a totale partecipazione pubblica.

[7] Consiglio di Stato, Sez. V, 3 marzo 2005, n. 272. Mette efficacemente in luce la contraddittorietà delle due decisioni quasi contestuali della Corte di giustizia e del Consiglio di Stato, G. MARCHEGGIANI, Gli affidamenti in house e la sindrome del cavallo a dondolo. Sentenze a confronto, in Giustamm.it

[8] I profili che sarebbero di ostacolo all’esercizio del controllo analogo vengono così individuati nella pronuncia del giudice comunitario: a) la natura di società per azioni del soggetto affidatario, conseguente alla sua trasformazione da azienda speciale; b) la particolare estensione dell’oggetto sociale; c) la prevista apertura del capitale della società a soggetti terzi, d) l’espansione territoriale dell’attività della società; e) gli ampi poteri gestionali conferiti al consiglio di amministrazione.

[9] Vedi in Giustamm.it, A. CLARIZIA, La Corte suona il de profundis per l’in house

[10] Da ultimo, Corte di Giustizia, 11 maggio 2006, C 340/04, in Urbanistica e appalti n. 9/2006, con commento di P. LOTTI, Corte di Giustizia e involuzione dell’in house providing

[11] In questo senso Cons. Stato, Sez. V, 22 dicembre 2005, n.7345 (di data successiva ma redatta prima della sentenza Parking Brixen)

[12] Vedi Consiglio di Stato, Sez. V, 13 luglio 2006, n. 4440. Nello stesso senso si esprime la recentissima sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514

[13] L’articolo 13 contiene anche una disciplina molto dettagliata di diritto transitorio, finalizzata a prevedere i meccanismi attraverso cui assicurare il perseguimento dell’obiettivo dell’esclusività per le società già operanti alla data di entrata in vigore del decreto.

[14] Peraltro, il modello fondato sul concetto di “esclusività” dell’attività, da svolgere cioè unicamente a servizio dell’ente locale di riferimento, viene riproposto anche nel DDL Lanzillotta, dove é esplicitamente previsto che le società a totale partecipazione pubblica affidatarie in via diretta della gestione del servizio pubblico locale “non possono svolgere, né in via diretta, né partecipando a gare, servizi o attività per altri enti pubblici o privati “ (art. 2, comma 1, lettera d), ultimo periodo). Sembra quindi evidente che il legislatore nazionale abbia scelto questa strada come quella da perseguire in tutti i casi si ipotizzano affidamenti in house a favore di soggetti societari.

[15] Di notevole interesse sono alcune affermazioni contenute nella sentenza 7345/2005 del Consiglio di Stato, sopra ricordata , laddove si evidenzia “che l’adozione nel diritto comunitario della figura societaria, come strumento alternativo alla prestazione diretta di servizi pubblici, impone di risolvere il problema del “controllo analogo” secondo un criterio coerente con la peculiarità dell’istituto in questione… E’ quindi da escludere, in linea di principio, che il diritto comunitario possa imporre un modello che riproduca, tra amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente”.

 

[16] Tra le possibili clausole statutarie, particolare rilevo può assumere quella che consente, in base alla previsione contenuta all’articolo 2364, punto 5, del codice civile, di condizionare all’autorizzazione dell’assemblea il compimento di determinati atti da parte degli amministratori. Per un’analisi approfondita degli strumenti attraverso cui il socio ente pubblico può precostituire le condizioni per l’esercizio del controllo analogo nei confronti di una società di cui sia azionista, vedi in Giustamm.it, A. LIROSI, Affidamento in house: lo stato dell’arte della dottrina e giurisprudenza in materia di controllo analogo. Anche attraverso una puntuale ricostruzione delle più rilevanti pronunce giurisprudenziali sul tema, l’Autore distingue tra modelli di “controllo analogo interno”, basati cioè sull’inserimento nello statuto sociale di particolari clausole che attribuiscono al socio pubblico poteri di direzione e coordinamento sulla società; e modelli di “controllo analogo esterno”, in cui si tende a perseguire il medesimo risultato attraverso strumenti di natura amministrativa, posti quindi al di fuori dei meccanismi societari in sé considerati.

[17] L’aspetto della necessaria mancanza di onerosità in relazione alla prestazione fornita dalla società a favore dell’ente pubblico si trova affermato con chiarezza nelle conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia La Pergola, nella causa C – 360/96 BFI Holding. Tale aspetto è ripreso e sviluppato nei suoi effetti conseguenti da A. PIAZZA, In house providing: assenza di terzietà e nuovi approcci interpretativi, in Rivista Trimestrale degli Appalti, 531, 2006.

[18] Accanto alla società a totale partecipazione pubblica, è contemplato anche il modello della società mista pubblico – privata, nei cui confronti l’affidamento diretto è consentito sempre in via di eccezione alla regola. Per le società miste è peraltro stabilito che la scelta del partner privato debba avvenire tramite procedure competitive e che vadano individuate clausole statutarie idonee ad assicurare un’efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili conflitti di interesse.

[19] Nello specifico, viene previsto che tale analisi di mercato, che deve evidenziare la necessità della gestione diretta, sia soggetta a verifica da parte delle autorità nazionali di regolazione dei servizi di pubblica utilità competenti per settore ovvero, ove non costituite, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato.

 

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a cura di prof. Gian Antonio Benacchio e dott. Michele Cozzio