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Il “riordino” dei servizi pubblici locali nel disegno di legge delega S. 772.
Tra liberalizzazioni annunciate e mantenimento dello status quo 

(marzo 2007)

di Damiano Florenzano

SOMMARIO
I. I contenuti dell'iniziativa
II. Le incertezze e le ambiguità della proposta
III. Qualche considerazione per un percorso ricostruttivo
 

I. I contenuti dell’iniziativa.

1. Il disegno di legge delega sul riordino dei servizi pubblici locali di iniziativa governativa si presenta oggi, anche a seguito delle modifiche da ultimo apportate, sostanzialmente riproduttivo dell’approccio e dei contenuti del testo depositato diversi mesi or sono.

Per quanto riguarda le ragioni del provvedimento, almeno così come rappresentate nella relazione, si prospetta la necessità di un intervento del legislatore che dovrebbe essere mirato a precisare, in via generale, nuovi (?) principi concernenti la gestione dei servizi pubblici locali; e si prospetta, pure, l’opportunità che tali principi - una volta affermati in via generale - dovranno essere estesi, per quanto possibile, anche ai servizi pubblici locali che già trovano disciplina nella legislazione di settore (energia, gas, acqua etc.).

2. Venendo al contenuto, il disegno ha un’articolazione scarna e, all’apparenza, semplificatrice; con l’art. 1 vengono precisati la finalità e l’ambito di applicazione; con gli artt. 2 e 3 si individuano le due separate deleghe (la prima per la cd. “riforma dei s.p.l.”, la seconda per l’adozione di misure a tutela dell’utente); segue, infine, un posticcio art. 3 bis che, riferendosi alle regioni a statuto speciale e alle province autonome, impone ad esse l’adeguamento della normativa interna ai nuovi principi contenuti nella delega e, contestualmente, sembra escludere, in queste realtà, l’applicazione dei futuri decreti delegati.

In particolare, l’art. 1 del disegno si preoccupa di precisare l’oggetto dell’intervento, ossia il riordino della normativa che disciplina l’affidamento e la gestione dei s.p.l. (il testo non è stato coordinato con le successive modifiche che hanno chiarito che il provvedimento concerne i cd. servizi di “rilevanza economica”); individua, altresì, le finalità del provvedimento, ossia la tutela della concorrenza e la tutela dei diritti degli utenti, tentando così di conseguire lo scopo di individuare i supposti titoli che legittimano l’intervento legislativo statale: le competenze esclusive nelle materie di cui alle lett. e) (tutela della concorrenza) e m) del II comma dell’art. 117 della Costituzione.

Il secondo comma dell’art. 1, da una parte, conferma il ruolo del servizio pubblico quale strumento per assicurare la soddisfazione dei bisogni della popolazione locale, dall’altra, riafferma, con enfasi inaspettata, il compito e quindi il ruolo degli enti locali (sub-regionali) nel selezionare (ed organizzare) detti servizi. E l’attenzione verso tale ruolo è uscita rafforzata proprio dalla recente modifica, introdotta nel testo del disegno dopo il passaggio in Conferenza Unificata, che ha introdotto, tout court, la locuzione “E’ competenza di comuni ...individuare ...le attività di interesse generale...”.

Quindi i commi 3 e 4 hanno il pregio di mettere nero su bianco norme che potrebbero dischiudere una vera e genuina prospettiva di azione liberalizzatrice, laddove stabiliscono:

che “ove possibile” la soddisfazione dei bisogni della collettività deve essere garantita attraverso l’esercizio dell’autonomia imprenditoriale, opportunamente orientata da interventi regolativi di detti Enti;

che gli Enti locali possono/debbono introdurre misure per compensare alle imprese gli oneri conseguenti all’adempimento degli obblighi di servizio pubblico.

Orbene, a fronte di tale densa ed impegnativa affermazione di principio, seguono i due articoli contenenti le deleghe i quali, con tecnica non encomiabile, declinano una serie di principi e criteri direttivi che contengono anche indicazioni sull’oggetto della delega e constano di enunciati, alquanto puntuali, i quali, per tal circostanza, non paiono, nella maggior parte dei casi, essere suscettivi di ulteriore esplicazione ed integrazione, da parte dei decreti delegati.

L’art. 2, che chiarisce che l’oggetto della delega concerne i servizi di rilevanza economica, fissa, in particolare, “principi e criteri” che:

declinano le forme di gestione, con esplicito favor per la forma che prescrive la messa in gara dell’affidamento;

introducono limitazioni di vario tipo alle imprese italiane e straniere che gestiscono un s.p.l. a seguito di affidamento ottenuto senza l’intermediazione di una procedura concorsuale;

prevedono meccanismi di incentivazione della gestione associata dei s.p.l.;

auspicano, a vari fini, il coinvolgimento delle Autorità indipendenti non meglio individuate;

introducono un regime transitorio con l’utilizzo di alcune ambigue formule che conducono a “salvare” tutti gli affidamenti diretti in essere fino alla data di originaria scadenza;

sembrano, solo in apparenza, concretizzare lo spazio per un avvio di liberalizzazione laddove, con pessima tecnica, invitano a “limitare .....i casi di gestione in regime di esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale....” (lett. m) art. 2).

L’art. 3, dall’altra, concerne la delega per l’adozione di misure minime finalizzate alla tutela degli utenti, e fissa principi/criteri in base ai quali il Governo dovrà:

prevedere l’obbligo per i gestori di adottare e pubblicizzare una Carta dei servizi, senza peraltro precisare la natura e l’effettiva portata di detti strumenti (lett. a);

prevedere che il mantenimento dell’affidamento ai gestori potrà essere subordinato all’esito di verifiche periodiche volte a misurare la soddisfazione degli utenti e, comunque, prevedere altre forme di vigilanza (lett. b, c, e);

armonizzare la nuova normativa con la disciplina vigente in materia di tuela dei consumatori (lett. d).

 

 

II. Le incertezze e le ambiguità della proposta.

1. Le perplessità che suscita il disegno di legge sono molteplici.

Quel che più colpisce è che il disegno di legge delega, a dispetto delle affermazioni di principio, pure ribadite nella Relazione, non dispone alcuna liberalizzazione, né è idoneo ad avviare alcun processo in tal senso, nemmeno in via sperimentale.

E’ di tutta evidenza che i principi e criteri direttivi non cospirano alla liberalizzazione delle attività economiche, né ad agevolare l’emersione di mercati concorrenziali nei settori tradizionalmente occupati dai servizi pubblici locali.

Le misure prospettate si limitano, principalmente, ad introdurre meccanismi concorrenziali per l’affidamento dei servizi pubblici ad un unico gestore in ambito locale (mirano quindi a realizzare la cd. “concorrenza per il mercato”); nulla di più.

La proposta quindi postula, inevitabilmente, l’immanenza dell’intervento pubblico nei settori economici e pure l’immanenza del monopolio (privato) nella gestione in ambito locale.

Cosicché quella che viene proposta, al più, si presenta come una “razionalizzazione” che, nella più benevola e positiva previsione, potrà portare, nel medio periodo, a sostituire le ex municipalizzate con dei monopolisti privati (operanti in ambito locale), che verranno reclutati periodicamente, attraverso l’esperimento di procedure concorrenziali. Queste ultime, peraltro, appaiono di incerto contenuto, posto che il disegno in esame si limita ad auspicare, non senza ambiguità, che esse dovranno essere svolte “nel rispetto della disciplina dell’Unione Europea in materia di appalti pubblici e di servizi pubblici”; e si sa che non esiste una disciplina comunitaria di rango derivato che governi puntualmente l’affidamento dei servizi pubblici (i quali, sovente, si ascrivono alla categoria delle concessioni di diritto comunitario e non a quella degli appalti).

Senza poi contare che, le gare, pur non ben definite, sono destinate a realizzare l’avvicendamento di management più che l’avvicendamento tra imprese ed aziende; sovente, infatti, l’azienda verrebbe trasferita dal vecchio al nuovo gestore.

E, d’altra parte, questa “razionalizzazione” che potrà produrre una privatizzazione delle gestioni – ancorché realizzata con l’intermediazione della gara per affidare il monopolio locale del servizio –, non è in grado di garantire, ipso facto, la qualità del servizio e, quindi, gli interessi degli utenti, e l’Ente affidante; quest’ultimo infatti, specie se privo – come lo è di norma – di un’adeguata struttura di controllo, finirà per essere “catturato” dall’impresa e subirà le iniziative e la politica dei gestori, sia in sede di gara, sia durante l’esecuzione del servizio.

Di certo non può essere menzionato come esempio di criterio orientato a realizzare le condizioni per un processo di liberalizzazione quello di cui alla lettera m) dell’art. 2.

La lettera enuncia un criterio, infatti, che sembra avere una natura meramente ancillare e subordinata rispetto agli altri principi e criteri contenuti nell’art. 2, che assolvono alla funzione “portante” della proposta; esso si limita a orientare il Governo a ridurre, per quanto consentito, le ipotesi di gestione di servizi “in esclusiva”. Più che essere un criterio appare un mero invito che sottende una posizione ottativa che sarà svuotata di contenuto e non attuata, specie se si tiene conto degli effetti che saranno prodotti dall’attuazione di tutti gli altri criteri/principi. Ciò senza contare che il criterio in parola sconta pure la circostanza – non si sa quanto chiaramente intesa o, addirittura, ricercata – che la disposizione circoscrive l’azione “liberalizzatrice” all’ambito dei cd. servizi pubblici garantiti da “esclusiva”; cosicché, finisce per ridurre le già limitate potenzialità del principio, posto che sono ben pochi i servizi in privativa legale e quei pochi difficilmente, allo stato, sono suscettibili di una “liberalizzazione” in senso proprio.

D’altra parte l’inadeguatezza della previsione appare con tutta evidenza se si considera che la vera erosione del mercato (dei servizi) determinata dalle iniziative degli Enti locali è rappresentata dall’erogazione di ben altre attività con le forme del servizio pubblico, attività che, all’apparenza, non sono garantite da alcuna previsione di privativa o di esclusiva (legale). Non si può trascurare che qualsiasi attività economica, se erogata dall’Ente al fine di assolvere a bisogni non commerciali/industriali, è destinata ad essere offerta a prezzi non di mercato; ed è proprio tale circostanza che elimina in radice le condizioni per lo sviluppo di una pluralistica offerta del prodotto/servizio.

Orbene, tale eventualità non sembra uscire ridimensionata dal documento in esame; anzi sembra poter essere alimentata, posto che proprio il d.d.l. contiene una rinnovata affermazione della competenza degli Enti locali a selezionare le attività che possono essere erogate con le forme del servizio pubblico; affermazione che, non si sa con quanta consapevolezza, il Governo ha introdotto all’art. 1 proprio su richiesta della Conferenza Unificata.

Per le ragioni illustrate, l’articolato proposto pare in stridente contraddizione con gli obiettivi perseguiti dalle Istituzioni comunitarie e con gli indirizzi pure chiaramente manifestati dal Parlamento Europeo (Risoluzione dd. 27 settembre 2006 n. 2006/2101), dai quali emerge la volontà di perseguire una politica di liberalizzazione (e non solo di privatizzazione) nel campo dei servizi d’interesse economico generale (ossia per i servizi che ricomprendono i servizi pubblici locali della tradizione nazionale di cui qui si parla).

2. A ben vedere il disegno induce anche qualche dubbio di legittimità costituzionale.

Non sembra che il legislatore statale, seppur in nome della competenza nelle materie della “tutela della concorrenza” e della “determinazione dei livelli essenziali”, possa procedere a dettare una disciplina compiuta e dettagliata che comprime le competenze legislative regionali, pure esclusive/residuali, al di là di quanto necessario per assicurare il soddisfacimento degli interessi di spettanza statale.

Ad esempio, non appare coerente con il riparto di competenza legislativa sancito dal rinnovato art. 117 della Costituzione la declinazione della nuova serie di poteri delle autorità indipendenti nazionali che comprimono l’autonomia organizzativa degli Enti locali e la competenza legislativa regionale.

Si sa già – e le caute formule contente nelle lettere m bis) e m ter) lo confermano – che la decretazione non potrà disciplinare i criteri da utilizzare nelle procedure di affidamento, pena il superamento dei limiti della competenza regionale (come insegna la nota sentenza della Corte costituzionale 13 – 27 luglio 2004, n. 272).

Appare anche irragionevole in sé e priva di alcun sostegno nella giurisprudenza comunitaria, al punto da essere sospetta di illegittimità costituzionale, la disciplina concernente le ipotesi di in house providing.

Va tenuto presente infatti, che la formula organizzatoria, seppur “svelata” dalla giurisprudenza comunitaria come una sorta di enclave – da qui la facile configurazione in forma di eccezione – sottratta alle regole degli appalti pubblici (perché non vi può essere contratto tra due Parti riconducibili al medesimo soggetto giuridico), trae la propria ragione fondante nell’incoercibile principio dell’autoproduzione e, detto con altri termini, nel principio di autonomia che si declina anche in autarchia e nel potere di autorganizzazione.

Orbene la disciplina in esame, che introduce il carattere di eccezione della formula organizzatoria rispetto alle altre forme di gestione e ne confina il ricorso a casi limite, non sembra sorretta da alcuna logica, puntuale e razionale motivazione.

Di certo una siffatta previsione non può essere giustificata ricorrendo alla disciplina o alla giurisprudenza comunitaria.

D’altra parte, sembra completamente sfuggire che in settori non liberalizzati non sussistono ragioni riconducibili ai principi comunitari per disporre misure che determinino, a priori, la difficoltà o, addirittura, l’impossibilità del ricorso all’”in house providing”. Anche perché la limitazione del ricorso alle formule organizzatorie in house, costituisce in sé una misura inutile se non è accompagnata da interventi volti ad assicurare le condizioni per una liberalizzazione.

Ora, se pur si comprende che vi potrebbero essere altre ragioni della scelta rigorosa del legislatore statale (ossia la buona amministrazione, la salvaguardia dell’integrità dei patrimoni pubblici, la tutela degli utenti etc.), non si può non rilevare che la limitazione del ricorso alle formule organizzatorie in house, costituisce in sé una misura inutile ai predetti fini, poiché essi si realizzano, al contrario, solo con strumenti che garantiscano l’economicità delle gestioni e la vigilanza sugli standard di servizio; obiettivi questi che possono essere realizzati, senza dover sacrificare le gestioni in house.

Tutto ciò mentre la riduzione dell’utilizzo delle formule organizzative in parola sarà foriera di ingenti depauperamenti di capitali pubblici (gli effetti prodotti alle società pubbliche operanti in alcuni settori economici dall’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, più noto come Decreto Bersani, dovrebbero costituire un serio monito) e di realtà economiche di Autonomie locali di medie dimensioni, senza per questo realizzare alcuna liberalizzazione ma solo la successione di un monopolista privato al precedente monopolista pubblico (in house).

In effetti, si ha il sospetto che il Governo sia ben consapevole della forzatura e delle difficoltà che seguiranno al ridimensionamento di detta formula organizzatoria, se nel d.d.l. è stata reintrodotta la gestione in economia (ma non l’azienda speciale); è presumibile che ciò sia avvenuto per consentire agli Enti almeno una chance per recuperare spazi di diretta operatività in sostituzione di quelli che non possono essere più occupati con le attività di soggetti “in house”. Anche se così facendo si paga l’elevato prezzo di alimentare una forma gestionale che non porta con sé garanzie di managerialità, di efficienza e, soprattutto, di trasparenti imputazioni di responsabilità.

3. Per il vero, il disegno in esame fa sorgere qualche perplessità di tenuta dinanzi ai principi sanciti dalle Istituzioni comunitarie. Qualche dubbio, infatti, viene suscitato dalla sin troppo generosa previsione di un regime transitorio (di cui alla lett. i) dell’art. 2) che pare consentire la salvezza di tutti gli affidamenti in atto anche dopo la data del 2011[1].

4. A ben vedere, si rinvengono ulteriori ambiguità ed incertezze che qui si richiamano sinteticamente.

La proposta sembra trascurare le problematicità che riguardano l’ipotesi della società mista; l’affidamento diretto del servizio a quest’ultima non è coerente con i principi comunitari anche se il socio privato (o i soci privati) della medesima sia stato scelto (siano stati scelti) con gara.

L’esperimento della gara – e ciò pur prescindendo dalla problematiche concernenti l’oggetto della medesima e la necessità di fissare un termine finale al partenariato – non consente di suffragare esaustivamente la legittimità dell’affidamento del servizio alla società predetta. Fatta eccezione dell’ipotesi in cui la società si presenti come un guscio vuoto e sia costituita, nella sostanza, solo dal privato, la predetta riceverebbe un affidamento diretto pur non essendo un esempio di soggetto “in house”. Da qui seri dubbi sulla tenuta di una siffatta formula organizzatoria.

Appare infine non proporzionata e pure non pertinente la previsione secondo la quale il decreto delegato dovrebbe occuparsi di separare le funzioni di regolazione da quelle di gestione, e ciò nell’ambito di una disciplina che, come detto, non avvia alcuna liberalizzazione (art. 2 let. f ter).

Infine qualche perplessità è provocata dal posticcio art. 3 bis, introdotto durante l’esame, laddove verrebbe previsto che le regioni a statuto speciale (e le Province autonome) adegueranno la propria disciplina ai principi della delega, come se esse si potessero sottrarre alla disciplina che dovrebbe essere posta dal legislatore delegato. La disposizione sembra trascurare i titoli competenziali da cui la delega afferma di attingere (tutela della concorrenza etc.) i quali, in ipotesi, potrebbero pure consentire l’applicazione della disciplina del decreto delegato nelle autonomie speciali, specie se questa continui a porsi come espressiva/esplicativa di principi di riordino del settore.

Al contrario, la singolare previsione sembra tradire la consapevolezza del legislatore che la delega esaurisca già i contenuti essenziali e che, al di là di essa, ci sarà ben poco, al punto da ritenere sufficiente indicare questa quale paradigma.

5. Orbene, le perplessità ed i dubbi illustrati evidenziano ambiguità che involgono il provvedimento legislativo, sia nel disegno complessivo, sia su singoli quanto rilevanti aspetti.

Non ci si può sottrarre dall’interrogarsi sul perchè la proposta manifesti la pomposa intenzione di “riordinare” i servizi pubblici locali, quando poi il testo si limita, per lo più, ad implementare alcune regole sulle forme di gestione che, senza necessità del legislatore, costituiscono già diritto vivente ad opera della giurisprudenza comunitaria ed interna.

Mentre la più innovativa delle disposizioni finisce per essere quella che reca il generoso ed ampio regime transitorio, che legittimerebbe la continuazione delle gestioni in essere fino alla scadenza originaria (anche oltre il 2011), con buona pace del favor per la concorrenza, pure affermato.

Gattopardismo o ingenuo confusionismo?

In verità si ha la netta impressione che il legislatore, anche questa volta, tra esigenze di rigore e il mantenimento di situazioni consolidate, si sia avvitato su sé stesso ed abbia perso le coordinate di riferimento in un ambito che meriterebbe maggiore attenzione, vista l’entità degli interessi in gioco e i valori delle proprietà in mano pubblica.

 

 

III. Qualche considerazione per un percorso ricostruttivo.

Come si sa, è da circa venti anni che è posta all’attenzione della dottrina e degli operatori la necessità di un intervento legislativo organico sui s.p.l. e sovente ci si adagia sulla considerazione – ormai divenuta un luogo comune – che gli sforzi profusi non hanno prodotto risultati appezzabili, posto che, al più, il legislatore è solo riuscito a produrre una disciplina generale sulle forme di gestione, che è stata ed è sottoposta a frequenti revisioni.

Sia consentito rilevare che la facile considerazione è vera solo in parte, ed è pure fuorviante.

Al contrario di quanto si ritiene, in questi anni il legislatore statale ha approvato plurimi provvedimenti di settore che hanno disciplinato attività che, a giusto titolo, sono riconducibili nel novero dei servizi pubblici locali (si consideri: l’erogazione del servizio idrico, la distribuzione del gas, la raccolta dei rifiuti, il trasporto pubblico locale etc).

Ciò mentre è con riferimento alla disciplina generale che si sono incontrate le maggiori difficoltà, pur se non poteva non essere presente la consapevolezza che la medesima non riguardasse i settori di maggior interesse (già governati dalle discipline di settore).

Proprio questa circostanza deve far riflettere, poiché non può essere imputata esclusivamente a difficoltà tecniche o a difficoltà politiche la mancata approvazione di un provvedimento organico con contenuti condivisi e puntuali, tali da proiettarsi nel tempo, in modo duraturo.

Sia consentito ricordare alcuni dati e considerazioni elementari che contribuiscono ad evidenziare la complessità del fenomeno, in ordine al quale si vorrebbe intervenire con una disciplina tendenzialmente unitaria e quindi unificante.

I servizi pubblici ed anche i servizi pubblici locali hanno scandito le tappe della storia dello Stato sociale; gli Enti locali hanno erogato ed erogano una inimmaginabile mole di attività economiche ed hanno offerto ai cittadini beni e servizi in assenza di un mercato o, comunque, di un mercato capace di dare risposte soddisfacenti ad una domanda non solvibile.

Così come è noto che detta, ormai, secolare esperienza, come altri fenomeni dello Stato sociale, ha conosciuto, conosce e porta con sé le degenerazioni del pluralismo istituzionale e della politica.

L’interventismo economico ha appesantito i bilanci degli Enti locali e, ciononostante, non è stato in grado di garantire sempre gli standard di qualità auspicabili, a fronte delle risorse impegnate.

La nuova disciplina sulle forme di gestione della legge n. 142/90 ha prodotto una spinta formidabile per l’intervento degli Enti locali, vuoi perchè essa ha nettamente riaffermato il ruolo centrale dell’autonomia locale (comunale e provinciale), vuoi perché ha consegnato agli Enti un’articolata varietà di modelli organizzativi (anche privatizzati), che hanno alimentato le iniziative.

A fronte di una disciplina generale che segue e conferma l’atipicità del servizio pubblico, sono da sempre esistite discipline speciali (acqua, rifiuti, trasporti etc.) pure variamente distribuite sui vari livelli di competenza legislativa.

I servizi di interesse generale di conio comunitario, con i quali si è costretti a confrontarsi, sono una categoria concettuale che non è perfettamente sovrapponibile ai servizi pubblici (anche locali) di diritto interno e, soprattutto, la disciplina (comunitaria) ad essi relativa si muove da esigenze del tutto diverse da quelle da cui si è mosso, nell’esperienza di oltre un secolo, il legislatore interno. Non a caso l’art. 86 del Trattato, con tale termine, ha inteso solo indicare quelle attività economiche che producono utilità e che possono essere di interesse dei singoli Stati (poiché assolvono ad una funzione comunque di interesse generale) e che, per questo, possono tollerare una disciplina in deroga alle libertà sancite dal Trattato (libertà di stabilimento, pubblicità, non discriminazione in base alla nazionalità etc.), qualora tali deroghe siano necessarie per garantire il conseguimento dei risultati della missione di interesse generale, riconosciuta al servizio. Nulla di più.

Basta questo accenno per percepire quanto la nozione che ne discende (di SIEG) sia distante da quella del servizio pubblico tradizionale, il quale è nato per sopperire all’inesistenza o, comunque, alla all’incapacità del mercato; mentre il servizio di interesse economico generale, nel ricomprendere una vasta categoria di ipotesi tra le quali rientrano pure i s.p.l., non presuppone l’inesistenza del mercato (quantomeno allo stato potenziale).

Se si tengono presente questi semplici dati si comprende appieno l’importanza di sfuggire da alcune semplificazioni unificanti, che generano perniciosi fraintendimenti.

Da qui qualche considerazione sul metodo.

A) Nella prospettiva di riforma, se è interesse garantire la tutela degli utenti ed introdurre forme, anche embrionali, di liberalizzazione, non è necessario assimilare i servizi pubblici locali tout court ai servizi di interesse generale (i quali pur si prestano a ricomprendere la categoria della tradizione nazionale).

Quantomeno, in caso di assimilazione, mercé l’utilizzo della formula di conio comunitario, occorre aver chiaro quale ne sia l’intendimento. Deve essere comprensibile:

se è di interesse provvedere ad una disciplina dei i servizi pubblici rispettando e confermando il ruolo che essi hanno sempre avuto nella storia del Paese, pur riconoscendo i limiti che derivano dall’ordinamento comunitario; cosicché, l’utilizzo della terminologia comunitaria ha come scopo solo quello di offrire un chiaro segno di adeguamento;

ovvero se, invece, si intende avviare una generalizzata liberalizzazione, contestualmente interdicendo gli Enti locali dal farsi diretti produttori delle utilities – ed azzerando così l’esperienza tradizionale del servizio pubblico locale –; cosicché, il richiamo e l’utilizzo delle formule di derivazione comunitarie marcheranno l’avvenuto introiettamento nel nostro ordinamento dei principi di liberalizzazione.

Quale che sia l’intento, sarebbe opportuno, sin d’ora, non mantenere nella legislazione nazionale l’uso del distinguo tra “servizi di rilevanza economica” e quelli “privi di rilevanza economica” (distinguo diverso da quello di derivazione comunitaria: servizi di interesse economico generale e servizi di interesse generale).

Le locuzioni usate dal legislatore interno, che non corrispondono a quelle usate nel lessico comunitario, introducono un elemento di confusione, poiché inducono a verificare la sussistenza della natura (economica) del servizio pubblico nell’attività e non nell’interesse (al contrario di quanto indotto dalla formula di derivazione comunitaria).

Ciò, con la conseguenza di rendere difficile l’individuazione di un servizio (ossia un’attività) che non sia suscettibile, quantomeno in astratto, di rilevanza economica e, di conseguenza, di costringere la ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale su impervie argomentazioni, per evitare le conseguenze intollerabili di una formulazione imprecisa.

B) Appare necessario tener conto della profonda differenza che intercorre tra le innumerevoli attività, suscettibili di essere erogate nella forma del servizio pubblico locale.

Così come occorre non trascurare che non è sufficiente la dimensione locale per presentare un’ attività come servizio pubblico locale. È il caso, ad esempio, del servizio di distribuzione dell’energia elettrica che pur viene considerata, dai più, ancora come servizio pubblico locale[2].

In ogni caso, gran parte di esse trova disciplina in una propria speciale legislazione. Come si sa, le discipline di settore dei servizi a rete sono state interessate negli ultimi anni da significative revisioni. E a queste si aggiungono altre organiche o parziali discipline concernenti le farmacie comunali, i parcheggi, l’edilizia popolare, i servizi culturali etc.

Se così è – e tale circostanza testimonia un’indiscutibile differenziazione tra i servizi pubblici locali (poiché ontologicamente diverso è l’interesse pubblico riconnesso) – potrebbe non essere opportuno e proficuo avviare un percorso di revisione della disciplina generale che si ponga come obiettivo una profonda pervasività; ciò, specie, se si considera che i servizi di maggior cifra tecnica ed economica sono già disciplinati da normativa speciale (trasporti, rifiuti, acqua, gas, etc.).

D’altra parte è la stessa disciplina del Trattato che sembra confermare la correttezza di un approccio che si incentra sull’esame del singolo servizio; difatti la prevista possibilità di deroga ai principi postula e presuppone proprio una valutazione caso per caso (servizio per servizio).

C) Qualsiasi tentativo di riordino delle pur sole forme di gestione dovrebbe essere accompagnato dal preventivo sviluppo di un serio modello economico e sociologico che consenta di definire attendibili, previsioni economiche e sulla qualità dei servizi. Ciò tenuto conto dei riflessi sull’erogazione e sulla qualità del servizio che sono prodotto della disciplina dell’organizzazione. Il che non sembra essere avvenuto, almeno ad osservare i contenuti di alcune disposizioni del d.d.l. che potrebbero determinare profonde modificazioni.

D) Infine, non possono essere trascurati alcuni contenuti del rinnovato Titolo V della seconda parte della Costituzione, i quali non concernono solo il riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni, bensì la competenza amministrativa e regolamentare degli enti territoriali sub-regionali che è uscita rafforzata dal nuovo testo costituzionale.

Indubbiamente, la definizione della linea di demarcazione tra l’ambito di competenza del legislatore statale e quello regionale finisce e finirà per attrarre la maggiore attenzione, ma non sarebbe errato ed inopportuno se il legislatore statale ribadisse, anche per evitare ipertrofici interventi regionali, l’ambito di spettanza delle autonomie locali.

Quello che non dovrebbe essere contenuto in un testo normativo statale, che interviene trasversalmente in materie che coinvolgono anche la competenza legislativa regionale, è la nota formula di stile “resta ferma la competenza delle Regioni”; detta formula, infatti, scarica, comunque, sull’interprete l’individuazione dei limiti di competenza e, quindi, pure la verifica della legittimità delle disposizioni emanate. La formula serve solo ad evidenziare che il legislatore statale riconosce l’esistenza di competenze regionali e che non intende travalicarle. Di certo non scongiura la violazione delle regole del riparto.

E) Possono intuirsi i problemi sul tappeto e pure le forti resistenze provenienti da varie parti all’inverarsi di un genuino processo riformatore.

Il riferimento è a viscosità culturali e a resistenze commendevoli e meno commendevoli. Non possono sfuggire ad alcuno i contenuti e le degenerazioni del mondo sommerso delle partecipazioni locali di cui le forme gestionali dei s.p.l. sono, purtroppo, un significativo esempio.

Dall’altra vi sono anche realtà imprenditoriali pubbliche sane, che non meritano un frettoloso azzeramento in nome di un’incomprensibile scelta di campo in favore del monopolio privato (per quanto legittimato dall’esperimento di una gara, si ripete, di incerto contenuto).

Più che disporre anatemi ed interdetti alle entità pubbliche, sarebbe necessario rovesciare l’ordine di approccio alla disciplina.

In primo luogo, occorrerebbe seriamente affrontare il tema dei diritti degli utenti e prospettare, partendo da questo soluzioni organizzative, anche nuove.

In secondo luogo, il legislatore dovrebbe indicare – come già avvenuto con le normative speciali – quali siano i servizi pubblici che devono essere erogati necessariamente attraverso un unico gestore e, quindi, attraverso una regìa pubblica (nel qual caso, la formula gestionale monopolistica potrebbe essere anche in house). In tutti gli altri casi dovrebbe essere affermato, in modo netto e senza infingimenti, che gli Enti locali, pur rimanendo competenti a selezionare i servizi pubblici di interesse della collettività locale e per le quali appare opportuno un intervento della medesima, possano solo svolgere funzioni di regolazione pro-concorrenziale o, al più, disporre misure indirette senza alcuna discriminazioni tra operatori. Il che non escluderebbe l’autonoma iniziativa degli Enti locali; ad essi non sarebbe precluso intervenire nelle attività di erogazione con moduli dedicati e in posizione di equiordinazione con le imprese private del settore.

Infine, qualsiasi riforma dovrebbe essere suggellata dall’introduzione di rigorosi controlli (non politici) sull’economicità delle gestioni pubbliche e da una chiara disciplina delle responsabilità degli amministratori degli Enti locali e delle società che, negli ultimi anni, è stata lasciata alla mercé degli orientamenti pretori della Corte di Cassazione e della Corte dei Conti[3].

 


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[1] A tal fine può essere ricordata, quale precedente, la procedura di infrazione avviata dalla Commissione n. 1999/2184, reiterata con nota dd. 26 giugno 2002, con la quale era stata contestata l’eccessiva lunghezza dei periodi che l’art. 35 della legge n. 448/01 riconosceva, quale regime transitorio, alle gestioni non allineate ai principi comunitari.

[2] In realtà per varie ragioni, l’attività non può essere considerata “servizio pubblico locale”, semmai un segmento di attività di interesse economico generale di più ampia dimensione. Sembra fare eccezione – ma è solo apparente – la disciplina applicabile nella Regione Trentino-Alto Adige SudTirol che, tutt’oggi, qualifica le attività di distribuzione come servizio pubblico (art. 1 ter, D.P.R. 26 marzo 1977, n. 235 e s.m.).

[3] Si segnalano le recenti e acute considerazioni di G. Montedoro, Società in house e responsabilità, 12 marzo 2007, in www.astrid.online.

 

Damiano Florenzano, Professore di Istituzioni di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento

 

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a cura di prof. Gian Antonio Benacchio e dott. Michele Cozzio